Sputnik ha cercato di capire per voi se il SARS-CoV-2, una volta entrato nell’organismo, vi rimanga per sempre e in che modo questo influisca sul trattamento della patologia.
Gene infetto
Il 13 dicembre in tarda serata sul portale bioRxiv (dove sono disponibili versioni preprint di articoli scientifici) è comparso un breve articolo sul nuovo coronavirus SARS-CoV-2. In particolare, l’articolo descriveva alcune proprietà che i ricercatori hanno rilevato in laboratorio inducendo il virus a riprodursi in una coltura di cellule umane.
Ai fini dell’esperimento le cellule sono state modificate: in esse è stato incorporato il gene della trascrittasi inversa (OT), un enzima che innesca il processo di formazione del DNA a doppia elica sulla base delle informazioni ricavate dall’RNA monoelica. In alcune cellule è stato impiegato il gene della OT (tipico, ad esempio, dell’HIV), mentre in altre LINE-1 (elementi nucleari considerati frammenti di antiche infezioni retrovirali che oggi costituiscono circa il 17% del genoma umano, ma sono attivati di rado).
Grazie alla trascrittasi inversa alcune sezioni dell’RNA di SARS-CoV-2 si sono trasformate in DNA e incorporate nei cromosomi. Gli autori dell’esperimento ritengono che, indipendentemente dal fatto che lo studio sia stato condotto in laboratorio, i medesimi processi possano essere innescati anche nell’organismo umano in presenza di infezione da nuovo coronavirus. Tra i gruppi di rischio rientrano anzitutto i pazienti con l’HIV.
È molto probabile che alcuni elementi del SARS-CoV-2, incorporandosi nel DNA umano, diventino frammenti subgenomici. In altre parole, non si tratta più di un virus vero e proprio, ma di sue tracce nel DNA. È possibile che proprio per questo motivo nei pazienti guariti dal COVID-19 i tamponi molecolari rimangano spesso positivi anche dopo la guarigione.
Ciò significa che i tamponi alterano i risultati di quegli studi che valutano l’efficacia del trattamento. Inoltre, rimane aperta la questione relativa alla capacità del SARS-CoV-2 incorporatosi nel DNA di produrre sue copie, come fa ad esempio l’HIV. Gli autori dello studio ritengono che sia poco probabile: dopo l’integrazione nel genoma di frammenti di RNA è impossibile la moltiplicazione del nuovo virus. Ciò significa che i pazienti guariti, indipendentemente dai tamponi positivi, non sono più contagiosi.
Pericolosamente verosimile
La diffusione dell’articolo in preprint ha scatenato forti reazioni sui social. Gli scienziati hanno subito adottato due scuole di pensiero: alcuni hanno apprezzato la rilevanza dello studio e ne hanno definito gli esiti “pericolosamente verosimili”, mentre altri hanno aspramente criticato gli autori dell’articolo.
Gli esperti hanno sottolineato l’insufficienza di dati a supporto e la rilevante differenza tra le condizioni di laboratorio e l’organismo umano. Inoltre, è poco probabile che si verifichi una integrazione dell’RNA virale con il genoma mediante i LINE-1 i quali di rado vengono attivati nel DNA umano.
Su Twitter il biologo molecolare Marius Walter dell’Istituto Buck per la ricerca sull’invecchiamento ha invitato gli amministratori del portale bioRxiv a cancellare la pubblicazione perché quest’ultima conterrebbe dichiarazioni pericolose e non supportate da alcun dato rilevante. Secondo Walter non vi sono prove rilevanti del fatto che i frammenti di DNA umano, simili ad elementi del SARS-CoV-2, si siano formati a seguito della trascrittasi inversa dell’RNA virale. A suo avviso esistono spiegazioni più verosimili per descrivere il fenomeno.
With all respect for the authors, I think this is an extremely poor paper. The good thing is, I also think it's actually very easy to disprove. A few thoughts bellowhttps://t.co/0ITkKJin1b
— marius walter (@mw_fr) December 14, 2020
Tuttavia, sulla rivista Science David Baltimore, biochimico americano, vincitore del Premio Nobel per aver scoperto la trascrittasi inversa, definisce “sorprendente e inaspettato” l’articolo. Precisa, altresì, che gli autori dello studio hanno soltanto dimostrato che i frammenti di SARS-CoV-2 sono teoricamente in grado di incorporarsi nel genoma. Pare però che il virus, integratosi nei cromosomi, cessi di riprodursi e dal punto di vista biologico questo vuol dire per lui morire, sottolinea il ricercatore. Tuttavia, ancora non è chiaro se queste cellule muoiano nell’organismo umano dove ha avuto luogo la trascrittasi inversa o se continuino a vivere.
Tracce di un passato antico
La maggior parte degli esperti non nega che in via ipotetica SARS-CoV-2 potrebbe integrarsi nel DNA umano, sebbene le probabilità siano minime. Ma in un lontano passato molti virus si sono comportati in maniera analoga. A riprova di questo vi è il genoma umano stesso il quale contiene circa 98.000 retrovirus endogeni (ERV), ossia sequenze di DNA di antichi virus.Stando alle stime dei ricercatori, l’ultimo retrovirus di questo genere ha infettato la popolazione circa 150.000 anni fa. Rispetto al genoma originario che è stato ripristinato da due gruppi di scienziati, si trattava di un virus esogeno, estremamente contagioso e che presentava lo stesso meccanismo di trascrittasi inversa. Tuttavia, a differenza di SARS-CoV-2 trasformava l’RNA in DNA in maniera autonoma. Inoltre, infettava cellule sessuali o germinali a partire dalle quali nelle prime fasi dell’embriogenesi si formano gli ovuli e gli spermatozoi.
Oggi nessun virus di questo tipo, nemmeno l’HIV, è in grado di infettarle.
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