Non si tratta di un complotto contro la cosiddetta Pax americana o nemmeno di un tentativo di ricreare una “contrapposizione a blocchi” sulla scia di quella che caratterizzò la seconda metà del XX secolo. La deglobalizzazione e la multipolarità sono già una realtà indipendentemente da che cosa ne pensino in merito Washington o Bruxelles.
Il problema è che mancano sia un ordine del giorno politico univoco a livello mondiale sia un linguaggio politico comune per discuterne sia direttive geopolitiche verso cui la comunità internazionale possa orientarsi.
Gli esempi sono numerosi. Al vertice del G20 il leader cinese ha proposto di creare un meccanismo digitale che consenta di sbloccare la circolazione tra nazioni in modo da sostenere l’economia globale, il commercio internazionale e la ripresa del turismo (che è fondamentale per molti Paesi, anche poveri).
La Cina ha proposto, in particolare, la creazione di un meccanismo internazionale di riconoscimento reciproco mediante un “codice QR dello stato di salute” che si baserà sugli esiti dei tamponi. “Spero che questo sistema verrà adottato dal maggior numero possibile di Paesi e regioni del mondo”, ha dichiarato Xi Jinping.Obiettivamente la creazione di una “conferma digitale” riconosciuta e valida a livello internazionale del fatto che un dato turista, diplomatico o imprenditore sia sano e possa superare i confini dei Paesi (e anche rimpatriare) senza effettuare una quarantena è una buona idea. Ma le probabilità di realizzare un simile sistema a livello globale e in tempi brevi sono praticamente nulle, sebbene questa misura si riveli necessaria già ora e potrebbe essere implementata anche piuttosto facilmente. Tuttavia, è altamente probabile che quest’idea non sarà realizzata perché è stata proposta da Xi Jinping e i leader occidentali in termini di immagine non possono essere d’accordo con una proposta ufficiale di Pechino (soprattutto una proposta che evidenzia l’elevato grado di sviluppo delle tecnologie informatiche cinesi).
Un altro esempio è la criticità legata all’inaccessibilità dei vaccini contro il coronavirus per i Paesi più poveri del mondo che in caso di mancata immunizzazione potrebbero a pieno titolo diventare focolai di diffusione del virus con tutte le evidenti conseguenze. Vladimir Putin nel suo intervento ha sottolineato la necessità di garantire un accesso globale ai vaccini:
“La Russia supporta l’intento chiave del vertice odierno consistente nel rendere accessibili a tutti i vaccini ritenuti efficaci e sicuri. Senz’ombra di dubbio i farmaci per l’immunizzazione sono e debbono essere un bene comune. E il nostro Paese, la Russia, è chiaramente pronta ad offrire ai Paesi che ne abbiano bisogno i vaccini messi a punto dai nostri esperti. Si tratta del primo vaccino brevettato al mondo, lo Sputnik V, basato su vettori adenovirali umani. È già pronto anche il secondo vaccino russo, EpiVac Corona, messo a punto presso un centro di ricerca di Novosibirsk. Vicina è anche l’elaborazione di un terzo vaccino russo.
La portata della pandemia ci costringe a mettere in campo tutte le risorse e le soluzioni di cui disponiamo. Il nostro obiettivo comune è creare un insieme di soluzioni vaccinali e garantire a tutta la popolazione globale la dovuta protezione. Ciò significa che i vaccini, esimi colleghi, debbono bastare per tutti. A mio avviso, la concorrenza in questo senso può rivelarsi inevitabile, ma dobbiamo prendere le mosse da motivazioni di carattere umanitario e focalizzare l’attenzione proprio su questo”.
Il problema, se ci mettiamo nei panni di Washington e Bruxelles, è nuovamente il fatto che il vaccino sia russo (tra l’altro, nemmeno il vaccino cinese è una valida alternativa per loro).
Vladimir Putin ha invitato a dimostrare un atteggiamento più collaborativo mettendo da parte la “inevitabile concorrenza”, ma le possibilità che questa esortazione venga ascoltata sono davvero minime, tanto più alla luce della perdurante campagna propagandistica portata avanti dai media occidentali per screditare i vaccini russi e cinesi.Si potrebbe continuare a elencare i temi su cui il vertice G20 non è riuscito a produrre un dialogo costruttivo (il vertice è stato, infatti, una serie di monologhi dei vari leader): la riforma dell’OMC, le criticità relative al debito dei Paesi in via di sviluppo, la tendenza globale al protezionismo. I leader occidentali hanno posizioni molto definite: parlano molto, non ascoltano nessuno e le loro proposte si riducono alla formula “tutti devono fare come diciamo noi, così tutto andrà bene”. In tal senso la posizione di Washington non cambierà di molto dopo il cambio del presidente.
L’assenza di sostanza del vertice G20 è una riprova del fatto che il mondo non si sta dirigendo verso una concorrenza tra “blocchi geopolitici” e nemmeno verso un ripristino della Pax americana (come spera invece Washington), ma si sta trasformando in un contesto in cui il consenso può essere trovato soltanto a livello bilaterale. Formalmente il mondo del G20 esiste ancora, ma nella pratica si sta tramutando in quello che il noto analista politico Ian Bremmer definisce “mondo del G-zero”, ossia un mondo in cui ognuno fa per sé. La transizione a questo scenario sarà probabilmente resa più rapida dall’eredità storica del coronavirus.
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