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L’intesa per la fine delle ostilità segnala il ritorno in campo degli Usa. Mosca è stata però fondamentale nel ridimensionare Haftar e nel restituire l’iniziativa politica ad Aguila Saleh presidente del Parlamento di Tobruk. Ma intanto le posizioni restano molto distanti. E la riconciliazione assai lontana.
E d’improvviso in Libia scoppiò la tregua. O, meglio, un cessate il fuoco capace di aprire la strada alla pace. Dietro l’annuncio - confermato non solo dal premier di Tripoli Fayez Al Serraj e dal presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh, ma persino da un presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi pronto fino a pochi giorni fa ad invadere il paese - c’è sicuramente lo zampino dell’America. A risvegliare l’interesse di Washington per un conflitto a lungo ignorato ha contribuito l’arrivo a maggio nella base di Jufra, 350 chilometri a sud di Sirte, di una pattuglia Mig russi provenienti dalla Siria.
Quel dispiegamento e il timore che la base si trasformasse in un avamposto russo ha rimesso in moto l’assopita macchina diplomatica americana. Da quel momento l’ambasciatore americano a Tripoli Richard Nordland ha iniziato a far la spola tra Ankara, Abu Dhabi, Il Cairo e le altre capitali dei paesi coinvolti nel conflitto. E una parte di quella trattativa è stata condotta, seppur su altri canali, anche con Mosca. Alle intese raggiunte da Nordland ha contribuito il ruolo svolto da Washington nell’accordo di pace siglato solo pochi giorni prima da emirati Arabi e Israele.
Grazie a quel contributo il Dipartimento di Stato ha convinto Mbz, ovvero il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed grande nemico della Turchia e della Fratellanza Musulmana, ad abbandonare al suo destino il generale Khalifa Haftar. E lo stesso ha fatto anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Resta da capire se, e come, Washington sia riuscita a ridurre a più miti consigli una Turchia che in cambio delle legioni di mercenari siriani e somali schierati a difesa di Tripoli s’è appena fatta sottoscrivere da Tripoli l’accordo per la trasformazione di una parte del porto di Misurata in propria base navale. Quell’accordo, ottenuto grazie alla disponibilità di Fathi Bashaga, un ministro degli interni considerato da molti libici la quinta colonna di Ankara, ha scavato profonde divisioni all’interno del governo di Tripoli spingendo lo stesso premier Fayez Al Serraj ad osteggiarlo. Gli americani avrebbero sfruttato questo scontro interno per garantire il loro appoggio a Serraj e convincerlo ad accettare un cessate il fuoco avversato da Bashaga e dalle fazioni pronte a riprendersi con le armi Sirte e la base di Jufra.
In tutto questo c’è però da chiedersi dove sia finito un generale Khalifa Haftar, protagonista di quell’offensiva per la conquista di Tripoli lanciata 15 mesi fa alla testa del cosiddetto Esercito Nazionale Libico (Lna). E non meno stupore desta la ricomparsa in veste di protagonista di Aguila Saleh ovvero del presidente di un parlamento di Tobruk che nonostante i forti legami con le tribù era stato ridimensionato a semplice comprimario quando Haftar godeva dell’appoggio di Francia, Emirati, Egitto e Russia.
La risposta ad entrambe le domande è scritta nella disastrosa parabola dell’ambizioso generale. Haftar si è suicidato politicamente e militarmente all’indomani della conferenza di Berlino dello scorso gennaio quando, convocato a Mosca da Vladimir Putin, si è rifiutato d’accettare il cessate il fuoco concordato dal presidente russo e Erdogan alla vigilia della Conferenza. Dopo quel “no” irriguardoso Mosca ha tagliato gli aiuti al recalcitrante generale che si è così ritrovato costretto ad abbandonare l’assedio Tripoli e tutte le posizioni conquistate in precedenza. Il tutto mentre Mosca, d’intesa con Emirati Arabi, Arabia Saudita ed Egitto conferiva ad Aguila Saleh la responsabilità delle trattative politiche. Di questa transizione hanno tentato d’approfittare Fathi Bashaga e le milizie pronte a marciare sui territori di Sirte ricchi di petrolio. Un tentativo bloccato da una Russia decisa a difendere i contratti per lo sfruttamento dei giacimenti di Sirte firmati al tempo di Gheddafi ed ancora validi. Anche perchè le intese concordate con Erdogan puntano ad una ricomposizione diplomatica del conflitto siriano capace di evitare lo smembramento del paese.
Su questa situazione pregressa s’inserisce una trattativa americana che, per quanto riguarda Sirte e i suoi giacimenti, sembra aver raggiunto un compromesso ufficioso con Mosca. Quel compromesso avrebbe consentito lo sblocco dei terminali petroliferi concordato con le milizie di Haftar 48 ore prima dell’annuncio del cessate il fuoco. L’apertura dei rubinetti del petrolio verrà ricordato probabilmente come l’ultimo atto di un generale ridottosi ormai a patteggiare con gli ex-alleati un’uscita di scena seguita da un nuovo inevitabile esilio. In tutto questo le intese abbozzate dagli Stati Uniti in uno scenario già largamente configurato dagli accordi tra Mosca e Ankara devono però dimostrarsi capaci di resistere alla prova dei fatti.
Le dichiarazioni con cui entrambe le parti hanno salutato il cessate il fuoco fanno pensare a posizioni, per ora, ancora assai distanti. Mentre Serraj invoca la smilitarizzazione di Sirte e della base di Jufra Aguila Saleh menziona soltanto Sirte. Gli Emirati Arabi nel salutare l’accordo sembrano invece accettare soltanto la versione di un presidente del parlamento di Tobruk che pretende “l’espulsione dei mercenai e la dissoluzione delle milizie per raggiungere una completa sovranità nazionale”. Una soluzione raggiungibile forse con il dispiegamento di una robusta forza di pace internazionale, ma che di certo non consentirebbe di andare alle urne entro marzo come proposto da Serraj. E anche la proposta di trasformare Sirte nella sede di un nuovo governo di unità nazionale ben difficilmente verrà accettata dai leader Tripoli. E non solo perchè Misurata e la capitale sono le loro irrinunciabili roccaforti, ma anche perchè riconoscere un nuovo governo significherebbe rinunciare al potere attuale. D’altra parte un esecutivo di unità nazionale dislocato a Sirte, ma privo di un esercito in grado di difenderlo non sopravvivrebbe un giorno se prima non venissero disarmate le le milizie di Tripoli e Misurata. In Libia, insomma, la fine delle ostilità continua ad apparire assai più difficile della continuazione della guerra.
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