Al livello più alto, si osserva una competizione sempre più forte tra i paesi già coinvolti dalla pandemia: ognuno, salvo qualche eccezione come l’Italia, cerca di limitare le attività economiche e sociali più tardi e per meno tempo, in maniera tale da ridurre al massimo l’impatto delle quarantene.
Diversi Stati hanno addirittura apertamente abbracciato la tesi della cosiddetta “immunità di gregge”, secondo la quale il miglior modo di fronteggiare il virus sarebbe quello di lasciarlo dilagare, in modo da concentrare nel tempo i costi del flagello, sperando che la popolazione riesca rapidamente a sviluppare gli anticorpi necessari a ridurne la letalità.
Non è chiaro se i governi che hanno optato deliberatamente in favore di questa strategia siano o meno effettivamente convinti della sua superiorità in termini di efficacia.
C’è da dubitarne. Sembra più probabile, invece, che questa sia stata l’opzione dei paesi che non hanno voluto limitarsi alla sola gestione immediata degli aspetti sanitari della crisi, preferendo piuttosto considerare l’insieme dei danni da contenere, inclusi quelli sul tessuto produttivo.Non ovunque il pubblico ha consentito ai governi di andare avanti su questa strada. Boris Johnson, ad esempio, ha dovuto ritornare in parte sui propri passi ancor prima di essere colpito personalmente dal coronavirus. Alle chiusure si è risolta recentemente anche la Federazione Russa e la Svezia sembra in procinto di fare altrettanto. Di contro, la Germania è rimasta ferma nel mantenere l’approccio, evitando la serrata nazionale, cosa che dovrebbe valerle a breve e medio termine il rafforzamento della propria supremazia manifatturiera all’interno dell’Unione Europea.
Il caso probabilmente più curioso si è prodotto negli Stati Uniti, dove il presidente Trump, già accusato non senza ragione di esser stato troppo leggero agli inizi della crisi, ha successivamente caldeggiato l’imposizione delle quarantene, incontrando però una significativa opposizione, che è stata specialmente forte nel campo dei suoi avversari interni.Il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, ha ad esempio respinto ogni pressione da parte della Casa Bianca, che suggeriva di imporre il lockdown nella Grande Mela. Quanto sta accadendo in America è interessante anche come caso estremo di competizione tra i poteri periferici e quello federale all’interno dello stesso paese.
Diversi Stati dell’Unione, infatti, stanno coordinandosi per preparare una via d’uscita dall’emergenza in competizione con le direttive restrittive ora provenienti da Washington. Evidentemente, i lockdown sono tollerati con sempre maggiore fatica, specialmente dov’è più acuto il timore di perdere permanentemente reddito ed occupazione a causa delle chiusure prolungate.
I poteri centrali sono in difficoltà, in quanto costretti a mediare tra la necessità di proteggere la salute della popolazione e quella di non comprometterne il futuro economico. Ne stanno derivando spinte centrifughe, che in qualche paese vengono contrastate con ulteriori irrigidimenti ed in altri invece con i primi cedimenti controllati a coloro che chiedono l’archiviazione delle quarantene più estese ed ermetiche.
Varie cause strutturali spiegano quanto sta succedendo: innanzitutto, il Covid-19 sta colpendo l’umanità, ma lo sta facendo a tappe e a macchia di leopardo. Dall’altro, sono ormai diffusi gli ordinamenti in cui la cosiddetta “verticale del potere” si è affievolita, con l’effetto di indebolire i governi centrali ed esporli alla concorrenza di quelli locali.
Ciò che si sta verificando negli Stati Uniti era già successo in Germania, dando luogo a chiusure parziali delle attività in alcuni Laender mentre il paese nel suo complesso rimaneva aperto. Il conflitto ha assunto proporzioni ancora maggiori in Italia, Stato in cui il governo ha dovuto prima inseguire sulla strada del rigore le deliberazioni assunte dalla Lombardia, la regione più duramente attaccata dal coronavirus, e poi fare i conti con la fuga in avanti del Veneto, il cui governatore Luca Zaia ha praticamente già avviato la “Fase 2”.Le conseguenze geopolitiche di quanto sta accadendo sono potenzialmente molto rilevanti. Si stanno infatti generando i presupposti per massicci trasferimenti di ricchezza e capacità produttive tra territori e tra Stati.
A quanto precede vanno aggiunti gli effetti del confronto sempre più intenso in corso tra le potenze che stanno cercando di espandere o mantenere l’influenza già acquisita. Il mondo non sarà lo stesso di prima quando sarà possibile tornare a guardarlo all’aria aperta.
La battaglia sull’attivazione del cosiddetto MES all’interno dell’Unione Europea e le raccomandazioni fatte da alcune autorità comunitarie circa l’opportunità di proteggere le industrie degli Stati membri da possibili scalate cinesi, contrastandole con maggiori aperture agli investitori europei nelle situazioni di maggior vulnerabilità, rivelano uno scenario assai complesso.I soldi per salvare le economie più compromesse verranno dai paesi più ricchi e solidi, che pretenderanno in cambio maggior voce in capitolo sulle scelte che ciascun Stato beneficiario vorrà fare in materia di tasse e spese, attenuandone la sovranità. Quanto agli imprenditori in difficoltà, sono stati praticamente invitati a rivolgersi ai loro concorrenti comunitari.
I paesi più forti o che semplicemente si sono difesi prima e meglio dal Covid-19 all’interno dell’Ue, circoscrivendo al massimo nel tempo e nello spazio le quarantene, vorranno monetizzare i maggiori rischi che hanno accettato di sopportare.
Le spinte centrifughe saranno allora più facilmente contenute dai paesi che dispongono di un’impalcatura solida. La forza delle istituzioni federali americane e tedesche impedirà a Stati Uniti e Germania di frammentarsi. L’Italia è invece più debole e quindi fatalmente esposta anche al pericolo di nuove tensioni sulla sua unità nazionale.
Non aiuta il Bel Paese la circostanza che il governo centrale sia attualmente presieduto da una personalità non elettiva, mentre i governatori regionali sono stati scelti con voto a suffragio universale e godono di una certa popolarità.
Giuseppe Conte è riuscito finora a generare e mantenere un certo consenso nei suoi confronti, ma le sue prospettive di permanenza a Palazzo Chigi sono incerte.
Gli è stata appena affiancata per decreto una task force tecnica incaricata di preparare l’uscita dell’Italia dal lockdown: un nuovo organismo dotato di poteri anomali e sottoposto alla guida di un altro tecnico, Vittorio Colao, in cui non pochi vedono già un premier in pectore. Seppure se ne dica un gran bene, si tratta di un’altra figura non politica, sconosciuta al grande pubblico e all’estero, quindi debole.
Dietro la scelta di “riaprire” appena operata da Zaia, in effetti, pare vi sia stata anche la moral suasion esercitata dalle imprese tedesche che dipendono dalle forniture di componentistica veneta.
Così stando le cose, è tempo che Roma presti maggiore attenzione ai territori più colpiti dal Covid-19, che nel corso di questa emergenza hanno lamentato più volte la lontananza, la freddezza e l’inefficienza dello Stato centrale, plasticamente rappresentate dalla latitanza delle massime cariche politiche nazionali, mai apparse al nord negli ultimi due mesi.
L’Italia ha già pagato al virus un prezzo esorbitante in termini di vite umane. Occorre evitare che ora a questa amara bolletta si aggiungano anche il sottosviluppo e la disgregazione del paese.
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