Cominciamo col dire che la sigla definisce la quinta generazione (5G, appunto) della comunicazione telefonica attraverso apparati mobili, i nostri “telefonini”. Si cominciò nel 1982 con la tecnica analogica “Tacs”, seguita nel 1992 dal GSM (il 2G) e poi, nel 2001, dall’UMTS. Infine, dal 2012 possiamo usare comunemente lo standard 4G (detto LTE: long term evolution) che ha consentito velocità di comunicazioni e trasmissione dati ben maggiore che in precedenza. Ebbene, quando la nuova “generazione” di telecomunicazioni sarà commercializzata ovunque, e lo si prevede per il 2022, il sistema potrà servire contemporaneamente ben un milione di apparecchi per ogni chilometro quadrato (ora il massimo sono centomila) con costanza di linea e con una pressoché infinita quantità di dati.
Non a caso se ne prevede l’applicazione via wireless e con basi-supporto in fibra ottica per auto senza guidatore, interventi di chirurgia a distanza, intelligenza artificiale, blockchain, intrattenimento e comunicazioni di ogni genere e, naturalmente, ovunque oggi si usino sistemi di controllo digitale via internet quali, ad esempio, i comandi a distanza per aerei, centrali elettriche, ecc.
Il primo Paese al mondo che ha già in corso una distribuzione commerciale del segnale via 5G è la Corea del Sud, che ha usato apparecchiature Samsung, Ericsson e Nokia. La rete può già contare su 86.000 basi sparse per tutto il territorio. Tuttavia, gli Stati che hanno deciso di investire nel settore erano, nell’aprile 2019, ottantotto con 224 operatori impiegati nei vari settori della realizzazione. Qualcuno ha stimato che entro il 2035 l’economia abilitata dal 5G varrà nel mondo circa 12 trilioni di dollari americani e che gli operatori vedranno una crescita dei loro ricavi di almeno il 36% entro il 2026.
Si capisce bene che, sia per le conseguenze economiche sia per i fattori di sicurezza coinvolti (immaginate il potere di qualche hacker malefico e la possibilità di raccogliere dati sensibili), l’intero processo non sia esente da criticità. Non è un caso che la stessa NASA sia partita sin dal 2008 con l’intenzione di sviluppare in proprio quella tecnologia e che abbia associato nel processo tutte le piu’ importanti aziende americane del settore quali Verizon, AT&T, T-Mobile e Sprint. Le quattro, infatti hanno già cominciato a tessere le proprie reti di trasmissione e la città di Atlanta è stata la prima a essere totalmente coperta dal luglio di quest’anno. In aggiunta alla prudenza richiesta da questioni di sicurezza, occorre precisare che per consentirne un uso mondiale uniforme è necessario addivenire a un unico standard tecnico e decidere quale lo diventerà sarà una scelta molto politica.
Ad oggi, le aziende che hanno sviluppato nel mondo una tecnologia adeguata a offrire un servizio di prima qualità sono soprattutto quattro: le già citate Samsung, Ericsson, Nokia e la cinese Huawei.
Quest’ultima, a partire dal 2013 ha investito ben 600 milioni di dollari in ricerca e può vantare di avere in corso contratti in numerosi Paesi del mondo dal Pakistan all’Indonesia, da molti Stati africani a qualcuno in Sud America. In Europa sta già lavorando in Gran Bretagna, in Germania, in Italia e pure altrove. Anche la Commissione Europea ha investito qualche milione di euro (esattamente 50) per la ricerca, così come hanno fatto numerose aziende private europee del settore. Purtroppo per loro e nonostante la smentita di essere, di fatto, una longa manus del Governo di Pechino, Huawei è partita avvantaggiata avendo potuto contare per la sua espansione all’estero sin dal 2004 sui generosi finanziamenti della China Development Bank (statale) e di una forte de-tassazione.
Il potere che le autorità cinesi possono esercitare in vario modo anche sulle imprese “private” è la ragione per cui alcuni Stati hanno cominciato a dubitare su chi affidarsi per lo sviluppo della rete nel proprio territorio ed è forte il sospetto è che gli apparati di Huawei e della ugualmente cinese ZTE Corporation (che, tra l’altro, realizza le reti di distribuzione) possano contenere sistema di crittografia che permetta di prendere il completo o parziale possesso del computer vittima e possano trasmettere questi dati alla casa madre.
Alcuni Governi hanno già bloccato l’acquisizione di apparecchiature cinesi e altri hanno creato delle Commissioni con l’incarico di verificare la possibile presenza di “backdoors”, ma la partita, per ora, resta aperta.
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