Per capire che dietro le stragi nelle chiese e negli hotel dello Sri Lanka ci fosse l’Isis non serviva la rivendicazione arrivata martedì e affidata, ad Amaq l’agenzia di stampa dello Stato Islamico attiva in rete. La precisione e la devastante professionalità con cui sono stati assemblati gli zainetti e i giubbotti esplosivi indossati dagli attentatori suicidi facevano intuire la presenza di mani esperte capaci non solo di reperire detonatori e esplosivo ad alto potenziale, ma anche di collegarli alla perfezione. Proprio per questo la tesi delle autorità di Colombo pronte ad attribuire le stragi ai militanti del National Thawheed Jamaat (Partito nazionale del Monoteismo) un piccolo gruppo jihadista d’ispirazione wahabita era apparsa subito improbabile.
Fino a quel momento il gruppuscolo si era limitato a rivendicare la distruzione o il danneggiamento di qualche monumento buddhista e non era mai stato coinvolto nella realizzazione di attentati o gravi violenze. Molto probabilmente il movimento è diventato, invece, l’aggancio di cui lo Stato Islamico si è servito per metter piede nello Sri Lanka e colpire in una zona dove non aveva mai operato prima. Da questo punto di vista gli attentati dello Sri Lanka, e il modo in cui sono stati messi a segno, rappresentano un’importante indicazione per capire da cosa dovremo difenderci in futuro.Per comprendere il cambio di metodologia bisogna partire dalla presunta disfatta siriana dell’Isis. Quella disfatta, a differenza di quanto sostenuto da molti, non è stata né completa, né definitiva. Numerosi leader dell’Isis, a partire dal suo leader Abu Bakr Al Baghdadi, si sono messi in salvo e sono tornati in quei territori del Nord Iraq dove il movimento è nato e si è sviluppato originariamente. Dietro a loro si è mosso qualche centinaio di quadri e militanti scampati ai combattimenti e diventati il nuovo nocciolo duro del gruppo. Assieme a loro sono sopravvissute le strutture virtuali utilizzate per mantenere la presenza sulla rete, come l’agenzia Amaq, e la ragnatela religiosa che continua a propagare la visione dell’Isis nelle moschee di tutto il mondo.
La struttura di comando, una volta al sicuro, ha operato un radicale cambio di strategia. Consapevole di come la creazione del Califfato, ovvero di un’entità territoriale ben definita e facilmente attaccabile con armamenti convenzionali, sia stata la vera ragione della disfatta Abu Bakr Al Baghdadi e i suoi hanno invertito le modalità di lotta.
Se prima il Califfato puntava ad attirare i jihadisti di tutto il mondo ora la tendenza è opposta. I jihadisti formatisi in Siria e Iraq vengono rimandati alle terre d’origine per addestrare i militanti locali e formare nuove cellule. La metodologia è simile a quella utilizzata nel 2015 per compiere gli attentati di Parigi e Bruxelles. A quel tempo l’Isis affidò ad Abdelhamid Abaaoud il compito di rientrare dalla Siria dove combatteva al quartiere di Molenbeek a Bruxelles e metter in piedi la rete locale necessaria a colpire nella capitale francese. Il Belgio, vicino a Parigi, ma famoso per l’inefficienza e la superficialità dei controlli di sicurezza, non venne scelto a caso. Lo Sri Lanka dove nessuno s’aspettava un’offensiva del terrore islamista, ma dove decine di jihadisti reduci Raqqa e Mosul sono rientrati impunemente alle loro case, è stato scelto per lo stesso motivo.In pratica con gli attentati di Sri Lanka ha fatto il suo debutto l’Isis 2.0. Un Isis diventato invisibile, ma pronto a usare gli ex combattenti straniere per infiltrarsi ai quattro angoli del pianeta e colpirci dove meno ce l’aspettiamo.
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