Detto ciò, quale sia quindi la verità e se siano stati gli aerei a sganciare il gas o, come sostengono i siriani, che sia stato colpito un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli, diventa ininfluente ai fini della situazione politica che si è nel frattempo creata. L'ipotesi che ci sia il "macellaio" di Damasco dietro al crimine è stata presa per vera da chi lo voleva ed è già servita a giustificare il lancio dei 59 missili Tomahawk dalle navi americane nel Mediterraneo.
Trump aveva assolutamente bisogno di un'azione di questo genere e non si è fatto scappare l'opportunità.I motivi per cui ha dato l'ordine di lancio sono più di uno e non hanno necessariamente a che fare con le ragioni umanitarie addotte, per quanto questo ultimo aspetto giochi sempre positivamente sulle varie opinioni pubbliche occidentali. Vediamoli uno per uno.
Innanzitutto, doveva ricompattare il Partito Repubblicano, diviso e demoralizzato dalle due pesanti sconfitte che hanno riguardato la mancata cancellazione dell'Obamacare e la nullificazione, ad opera della Magistratura, dei due Muslim-ban. Poi, il suo tasso di approvazione presso l'elettorato americano era crollato al 35% e molti cominciavano a dubitare della sua capacità di far seguire i fatti alle tante parole spese durante la campagna elettorale. Tra l'altro, aveva sempre criticato Obama per non essere intervenuto in Siria nel 2013 pur dopo aver fissato la famosa "linea rossa" e l'accusa fu proprio che l'indecisione dell'allora Presidente aveva portato discredito agli Stati Uniti e indebolita la posizione americana in medio oriente e agli occhi degli alleati.
Per ciò che riguarda la politica estera, non va dimenticato che il problema oggi più urgente sul tavolo di Trump è la rincorsa nucleare nord coreana. Non a caso il via libera al bombardamento sulla base siriana è stato dato proprio mentre il leader cinese era ospite del Presidente americano in Florida. La minaccia di un intervento unilaterale se la Cina non fermerà i coreani e l'invio di una flotta verso quella penisola sono diventate più credibili dopo l'attacco in Siria.Ma non è tutto. In patria, il problema più delicato per il Tycoon restano le accuse a cui è sottoposto per i suoi presunti collegamenti pre-elettorali con i russi e il conseguente sospetto di rapporti "privilegiati" con Putin. Un bombardamento contro l'alleato di Mosca in Siria dimostrerebbe che la dichiarata volontà di "rappacificazione" non è più importante della tutela degli interessi americani e che "America first" riguarda anche il ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Alcuni osservatori ne deducono che ne derivi una irreversibile fine di quella politica di appeasement che Trump aveva dichiarato di voler intraprendere ma è vero il contrario: non a caso, almeno un'ora prima che i missili fossero lanciati, gli americani informarono il Cremlino della loro intenzione ed i danni arrecati alla base aerea non hanno coinvolto né elicotteri né militari russi. Pure i danni ai siriani, probabilmente pre-allertati da Mosca, sono stati minimi in considerazione della forza di fuoco impegnata.
Anche la razione di Mosca è, paradossalmente, funzionale ad aprire la strada a una efficace negoziazione bilaterale tra le due potenze. La Russia ha protestato formalmente e ha dichiarato rotto il patto di pre informazione reciproca sulle rispettive mosse militari in Siria (ma i militari americani hanno poi confermato che rimarrà in vigore l'intesa peri evitare possibili, involontarie, collisioni aeree). Con il bombardamento e con la minaccia di poterne effettuare altri, gli Stati Uniti ritornano a essere negoziatori alla pari, ridiventano protagonisti nel Mediterraneo e in Medio Oriente e, qualunque accordo potrebbe nascere nel futuro, nessuno dei due protagonisti perderebbe la faccia.E proprio questo che al Pentagono qualcuno teme: ritrovarsi la Russia come gradito interlocutore. È anche per cercare di scongiurarlo che hanno lanciato un'indagine per dimostrare se nei presunti usi siriani di gas sarin sia coinvolta anche il Cremlino. È sicuro che, vera o falsa che sia tale ipotesi, una sua affermazione renderebbe impossibile ogni ulteriore trattativa.
Che la partita non andrà necessariamente nelle direzione sperata da tutti questi soggetti lo dimostrano però due fatti. Il primo è che nell'incontro dei ministri del G/7 tenutosi recentemente a Firenze, nessuna decisione su ulteriori sanzioni contro la Russia sia stata presa anche per il disaccordo americano. Il secondo: che la visita a Mosca del Segretario di Stato americano Tillerson sia stata confermata (mentre quella del guerrafondaio Boris Johnson è stata cancellata).
Certamente, una possibile negoziazione dovrà portare ad una soluzione con due vincitori e nessuno sconfitto e, probabilmente, chi ne farà le spese sarà la persona di Bashar Al Assad. Poco male se si pensa che Bashar, a differenza del padre Hafez, non è il vero padrone del Paese: è soltanto l'espressione di una oligarchia dominante composta prevalentemente da alauiti, ma non solo da loro. Quel che interessa ai russi è che i futuri equilibri interni alla Siria, magari anche attraverso elezioni libere (ma in qualche modo preventivamente concordate) possano continuare a garantire le basi di Tartous e Latakia. Per gli iraniani la questione è un po' più complicata ma, se l'attuale classe dirigente siriana rimarrà al suo posto pur senza Assad, i loro interessi nella zona saranno comunque tutelati.Alla faccia di Turchia e Arabia Saudita. E degli europei, i quali, come sempre, non riescono a sviluppare una loro strategia comune e subiscono le decisioni altrui.
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