Sembra che solo la Norvegia (almeno fino a ora) abbia saputo sottrarvisi, mentre tutti gli altri non sono riusciti a liberarsi dalla dipendenza degli introiti derivanti dal petrolio e diversificarsi in altri settori. E' per questa ragione che il calo dei prezzi del barile ha mandato nel panico molti Paesi produttori e li ha obbligati a far di tutto per riportare le remunerazioni a livelli accettabili.
Per capire cosa è successo, occorre ripercorrere un po' di storia.
Nonostante il Club di Roma, composto di scienziati e studiosi di varie discipline, avesse previsto alla fine degli anni sessanta che la produzione mondiale di idrocarburi fosse destinata a calare drammaticamente, la quantità prodotta è andata sempre aumentando. Anche l'incremento della domanda complessiva, causata dalle necessità di sviluppo della Cina, è stata facilmente assorbita da nuovi pozzi e, ultimamente, anche da recenti tecnologie di estrazione, quale la "fratturazione" (fracking) di rocce bituminose e dai fanghi (shale oil/shale gas).Soprattutto quest'ultima modalità, sviluppata principalmente in Nord America, ha contribuito a un aumento dell'offerta tale da causare, assieme ad una domanda già ridotta per via della crisi economica mondiale, quel crollo dei prezzi cui abbiamo assistito dallo scorso anno.
Basta ricordare come, nel giugno 2014, tutti i Paesi importatori fossero terrorizzati da un costo superiore ai 110 dollari al barile per poi confrontarlo con i 26 dollari del gennaio 2016.
Ciò che più ha spaventato i tradizionali venditori è stato però l'affacciarsi sul mercato dello shale oil americano. Gli Stati Uniti sono sempre stati buoni produttori ma la domanda interna era talmente alta da farli diventare, comunque, i maggiori importatori mondiali. Grazie allo shale, gli Usa sono potuti diventare autosufficienti e le potenzialità estrattive sono tali da trasformarli in possibili esportatori. La diminuzione della loro domanda sui mercati internazionali e l'eccedenza di prodotto da loro creata stavano portando non solo gravi conseguenze economiche per tutti gli altri, ma anche notevoli cambiamenti nelle strategie geo-politiche mondiali. Chi maggiormente ne ha avvertita la minaccia sono state le monarchie del Golfo che, più di tutti, contavano da anni sulla loro centralità strategica e sulla "protezione" americana, grazie all'importanza del loro petrolio per l'economia d'oltreoceano.
Dal punto di vista strettamente economico, l'Arabia Saudita, il maggior produttore al mondo e quello con le maggiori riserve stimate, intravide un futuro nero, in cui le proprie quote di mercato sarebbero state notevolmente ridimensionate. Anche l'accordo raggiunto con l'Iran (altro potenziale grande produttore e storico nemico di Riad) creava spazio al re-ingresso sul mercato internazionale del petrolio di quest'ultimo, rendendo ancor meno indispensabile il ruolo politico dei Sauditi nell'area.Occorre notare che il petrolio da perforazione richiede notevoli investimenti per l'esplorazione, lo scavo dei pozzi e l'estrazione (secondo la profondità). I tempi, naturalmente, sono nell'ordine di qualche anno prima di raggiungere il pareggio point. Anche lo shale richiede investimenti importanti, ma i tempi necessari per passare dal progetto alla produzione ottimale si riducono a pochi mesi. Ciò nonostante, gli ammortamenti e il costo finale dell'estratto sono mediamente più elevati (dai cinquanta ai 70 dollari al barile circa) e si giustificano solo con i margini un tempo ottenibili.
Quando la tecnica dell'estrazione dai fanghi partì, centinaia di piccole società statunitensi (e non solo) si buttarono nell'affare, raggiungendo in breve tempo quantità rilevanti di produzione. Il prezzo di vendita alto dava rendimenti tali da spingere banche e finanziarie di ogni genere ad anticipare denaro a chiunque potesse vantare una concessione.
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