Il Ministero degli Esteri cinese, esprimendo preoccupazione per la situazione in Myanmar, ha auspicato che le azioni che verranno intraprese dalla comunità internazionale possano favorire la stabilizzazione della situazione nel Paese asiatico.
"Abbiamo prestato attenzione a tutto ciò che sta succedento in Myanmar, la Cina è un vicino amichevole del Myanmar, e ci auspichiamo che tutte le parti possano regolare le proprie contraddizioni nei limiti della costituzione e della leggi, al fine di garantire la stabilità sociale e politica", ha riferito il rappresentante degli Esteri di Pechino Wang Wenbin.
Il diplomatico ha quindi sottolineato come "tutti gli atti della comunità internazionale dovranno essere tesi a favorire la stabilità politica e sociale del Myanmar, oltre che la pace e la pacificazione nel Paese, per evitare escalation e un ulteriore peggiormaento dello scenario".
Rispondendo ad una domanda su un eventuale riconoscimento del "governo militare" birmano da parte di Pechino, Wenbin ha quindi dichiarato di non avere altro da aggiungere sulla questione.
Il monito di Biden
Nelle scorse ore il presidente americano Biden ha avvertito che il golpe militare avvenuto in Myanmar potrebbe portare alla reintroduzione delle sanzioni nei confronti del Paese asiatico.
Tali misure restrittive erano state revocate dagli USA circa dieci anni fa in seguito all'avvio del processo di riforma democratica del Paese avviato nel 2011.
Il golpe dell'esercito in Myanmar
La giornata di ieri, quella che in Myanmar avrebbe dovuto formalizzare i risultati delle elezioni dello scorso 8 novembre, quando la NLD di Aung San Suu Kyi aveva ottenuto l’83 per cento dei seggi disponibili, è sfociata in quello che è a tutti gli effetti definibile un colpo di stato militare.
Qualche giorno fa, dopo aver provato ad appellarsi alla Corte Suprema per contestare l'esito del voto, i militari avevano minacciato di passare all’azione, circondando il Parlamento con i soldati.
E così, dopo aver visto rifiutate le proprie istanze, l’esercito è passato dalle parole ai fatti, arrestando i leader della NLD, tagliando le linee telefoniche ed internet, cancellando tutti i voli e proclamando un anno di stato d’emergenza. Una prerogativa, quest’ultima, riservata all’esercito dalla costituzione del 2008.
In un attimo il Paese, che dal 2011 aveva iniziato il proprio percorso di riforme democratiche è ripiombato nei suoi anni più bui. A finire dietro le sbarre, oltre ad Aung San Suu Kyi e al presidente U Win Myint, sono stati i principali ministri, gli oppositori politici, scrittori e attivisti, per un totale di circa 45 persone.
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