Il presidente americano Joe Biden ha dichiarato che l'America potrebbe introdurre nuove sanzioni nei confronti del Myanmar alla luce del recente colpo di stato militare avvenuto nel Paese.
Biden ha ricordato che la rimozione delle misure di sanzioni nei confronti del Paese asiatico erano state basato sui progressi fatti da quest'ultimo verso la democrazia:
"L'inversione di tali progressi necessiteranno un'immediata revisione delle nostre leggi sulle sanzioni, e saranno seguite da azioni appropriate", è stato il monito del presidente USA.Il capo di stato ha quindi sottolineato come "la forca non dovrebbe mai essere utilizzata per sovvertire il volere del popolo o per cancellare il risultato di elezioni credibili.
In conclusione Biden ha quindi rivolto un appello alla comunità internazionale, chiedendo unità di intenti rispetto a quanto sta accadendo in queste ore nel Paese birmano:
"La comunità internazionale dovrebbe essere unita e richiedere con una sola voce che i militari del Myanmar rinuncino al potere del quale si sono appropriati, rilascino gli attivisti e i funzionari che hanno arrestato, rimuovano tutte le restrizioni sulle telecomunicazioni e si astengano dalla violenza nei confronti dei civili".
Il golpe dell'esercito in Myanmar
La giornata di ieri, quella che in Myanmar avrebbe dovuto formalizzare i risultati delle elezioni dello scorso 8 novembre, quando la NLD di Aung San Suu Kyi aveva ottenuto l’83 per cento dei seggi disponibili, è sfociata in quello che è a tutti gli effetti definibile un colpo di stato militare.
Qualche giorno fa, dopo aver provato ad appellarsi alla Corte Suprema per contestare l'esito del voto, i militari avevano minacciato di passare all’azione, circondando il Parlamento con i soldati.
E così, dopo aver visto rifiutate le proprie istanze, l’esercito è passato dalle parole ai fatti, arrestando i leader della NLD, tagliando le linee telefoniche ed internet, cancellando tutti i voli e proclamando un anno di stato d’emergenza. Una prerogativa, quest’ultima, riservata all’esercito dalla costituzione del 2008.
In un attimo il Paese, che dal 2011 aveva iniziato il proprio percorso di riforme democratiche è ripiombato nei suoi anni più bui. A finire dietro le sbarre, oltre ad Aung San Suu Kyi e al presidente U Win Myint, sono stati i principali ministri, gli oppositori politici, scrittori e attivisti, per un totale di circa 45 persone.
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