I ragazzi passano troppe ore davanti allo schermo, e in totale solitudine. Le sfide che si diffondono sempre più sui social rappresentano un fenomeno preoccupante che vede protagonisti i minori. È giusto chiedere maggiori controlli da parte dello Stato e pretendere un funzionamento più trasparente ai social network, ma il problema riguarda tutta la società, in primis i genitori, e la mancanza di un’educazione digitale.
“È importante che la società non si giri dall’altra parte in maniera omertosa. Bisogna richiamare il senso di responsabilità dei genitori, che devono ascoltare e osservare i ragazzi, devono stare con i figli”, questa è l’opinione dell’avvocato Carlo Ioppoli, presidente dell’ANFI (Associazione Nazionale Familiaristi Italiani).
— Tik Tok sta adottando delle misure per bloccare gli utenti under 13 anni utilizzando sistemi di intelligenza artificiale per la verifica dell’età. È una misura sufficiente o quali altri provvedimenti dovrebbero essere presi per tutelare i più piccoli nel mondo dei social?
La pandemia non ha fatto che amplificare questa situazione, che scorreva già da tempo fra i più giovani. Secondo me non va tanto limitato l’accesso, ma è importante che la società non si giri dall’altra parte in maniera omertosa. Bisogna richiamare il senso di responsabilità dei genitori, che devono ascoltare e osservare i ragazzi, devono stare con i figli.
— Per aprire un account sui social l’età minima richiesta è di 13 anni. Secondo lei non dovrebbe essere più alta la soglia?
— Secondo me sì, dovrebbe essere più alta. I ragazzini, anche a 11 anni, sono talmente abili dal punto di vista tecnologico che molte volte riescono ad aggirare questi limiti. Come dicevo prima, ci vuole maggiore partecipazione dei genitori. Non si tratta di delegare il problema agli psichiatri, si è detto più volte durante la pandemia che i giovani devono essere seguiti di più da un punto di vista psicologico.Il problema è che siamo di fronte ad un fallimento giuridico, cioè noi non possiamo proiettare sui giovani la nostra titubanza educativa. Troppo spesso lasciamo che sia lo Stato ad educare i giovani, ma non deve essere così. I limiti di età più stringenti possono avere un effetto deterrente ma non sono risolutivi.
— Si sa, aprire un account equivale alla stipula di un contratto, e per legge per poter fare un contratto bisogna essere maggiorenni. Come riporta Italia Oggi c’è la possibilità di una class action da parte numerosi genitori nei confronti dei social. Che ne pensa di questa iniziativa?
— Sicuramente può essere una strada da percorrere. È un tentativo, anche qui, da parte dei genitori di deresponsabilizzarsi facendo causa ai social network. Sarebbe bene che i genitori assumessero la responsabilità in prima persona dei comportamenti dei figli sui social. Si fa presto a fare una causa, anche se in qualche caso questo gesto può essere giustificato, però bisogna cercare di educare i figli, perché i pericoli sono tanti quando un minore si approccia ad un social network.
— Purtroppo gli incidenti, anche mortali, legati alle sfide sui social aumentano. Possiamo dire che la situazione è un po’ sfuggita di mano e che siamo di fronte ad alcune lacune nel diritto in questo senso?
— Dando lo smartphone ai figli si da per scontato che li possano utilizzare in sicurezza, ma in realtà manca una vera e propria educazione digitale. In questo contesto che ruolo ha la scuola? Non sarebbe ora di introdurre delle lezioni di educazione digitale?
— Questa sarebbe un’iniziativa assolutamente da fare nelle scuole, fin dalle scuole elementari. Serve una sorta di educazione civica digitale, dando un supporto ai ragazzi che si affacciano su un mondo tanto affascinante quanto pericoloso.
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