Leggere la prima parte dell'intervista
In conseguenza di ciò i venezuelani stanno soffrendo moltissime carenze: dalla benzina che impedisce i trasporti e il commercio, al gas domestico, all’acqua e alla luce.
Il noto economista e Presidente di Guizzetti & Associates Antonio Guizzetti che si trova a Caracas ha gentilmente rilasciato intervista a Sputnik Italia.
— Lei sostiene che questa politica aggressiva degli USA non ha alcuna base legale o giustificazione giuridica. E come invece difenderebbe gli obiettivi nell'adozione delle misure restrittive? Sono puramente politici?
L’embargo oltre a non avere giustificazioni giuridiche è anche uno strumento ingiusto e sbagliato nei suoi obiettivi. Infatti, per esempio, non credo che gli Ayatollah o Kim Jong-un soffrano molto delle sanzioni previste dall’embargo decretato verso i loro Paesi, ma sono certo che la gente coreana e iraniana soffrano molto. Infatti, nella Corea del Nord nei negozi non si trovano i beni alimentari di prima necessità e nelle farmacie iraniane mancano le medicine. Le statistiche della Banca Mondiale sul livello della malnutrizione della popolazione nordcoreana e sulla diffusione delle malattie in Iran confermano queste mie affermazioni.
Una mia ulteriore considerazione.
Il Consiglio di Sicurezza (l'organo dell'Assemblea delle Nazioni Unite che – su richiesta del Presidente Bush - ha avallato la guerra in Iraq sulla base di foto aeree presentate ai suoi membri dal Segretario di Stato americano) è stato creato da tutti i Paesi del mondo ricevendo il mandato di risolvere i problemi internazionali. Perché, dunque, dimenticare gli obiettivi che la Carta dell’ONU assegna al Consiglio di Sicurezza e gestire le relazioni tra le nazioni ricorrendo all’embargo?
— Tornando alle sanzioni sul settore energetico, è vero che Venezuela, dove si trovano le più grandi riserve petrolifere del mondo, soffre anche della carenza di benzina?
Inoltre, a conseguenza dell'embargo, tutti i conti bancari esteri del Venezuela sono stati congelati e i suoi beni esteri espropriati. Ad esempio, PDVSA è proprietaria di Citgo Petroleum Corp., la più grande catena nordamericana di stazioni di benzina, un eccellente modello di integrazione fra le attività upstream e di downstream, che negli anni passati ha permesso al Venezuela di diversificare i mercati di esportazione del petrolio e dei suoi prodotti derivati. Nell'agosto del 2018 un giudice distrettuale statunitense ha autorizzato il sequestro di Citgo Petroleum Corp. non so in base a quale criterio giuridico, e quindi questo attivo di rilevante valore è stato cancellato dal bilancio di PDVSA con un evidente impatto negativo su tutta la sua economia societaria ed anche su quella del Paese, essendo Citgo Petroleum Corp. una società di proprietà pubblica.
— Sia Maduro, sia l’opposizione promettono che presto riporteranno l’industria al suo antico splendore, ma molti analisti sono scettici. E Lei cosa ne pensa?
A mio giudizio, in passato, il Governo del Venezuela ha commesso l'errore di concentrare la sua politica economica esclusivamente sullo sviluppo della sua industria petrolifera, una scelta quasi obbligata in considerazione delle enormi riserve petrolifere che il Paese ha. Ma, come spesso accade, la scelta di un solo mercato e di un solo settore è spesso una scelta rischiosa e oggi il Paese ne paga le conseguenze. Il Venezuela, oltre alle sue enormi riserve petrolifere, ha un grande potenziale agricolo, possiede risorse minerarie di ogni tipo (con l'attuale prezzo dell’oro, se il Venezuela potesse esportare oro, il Paese sarebbe un Paese senza nessuna crisi economica e sociale), ha un'eccellente posizione geografica, eccetera e quindi potrebbe essere un Paese Leader della regione latino-americana. Invece, si trova in una profonda recessione economica e in crisi sociale.
Per ripartire, il Paese ha bisogno di essere riammesso nel consesso della comunità internazionale (dal quale è stato escluso a conseguenza dell'embargo) ed avviare un processo di riforme istituzionali e di diversificazione della sua economia.
— E come vive tutta questa situazione estremamente drammatica la popolazione venezuelana che è stata messa alla dura prova anche dal Covid e dalla corruzione che avvelena il Paese ormai da anni?
— I venezuelani sono un popolo molto latino e oso anche affermare che in molti aspetti della loro personalità assomigliano a noi Italiani. La gente venezuelana possiede una straordinaria capacità di adattamento a tutte le situazioni, favorevoli ed avverse. Oggi, i venezuelani non sono felici e soffrono a conseguenza della difficile congiuntura che il Paese sta attraversando.
Nei contatti avuti con la gente in questi ultimi giorni, in particolare i tassisti, i commessi, le cassiere dei supermercati, quelli che sono per me degli ineguagliabili Opinion Leaders di qualsiasi paese del mondo, non ho riscontrato nessun rancore o progetti di ribellione ma trovato un sentimento nuovo nell’idiosincrasia ed estraneo alla filosofia di vita dei venezuelani: la tristezza.
Ecco, oggi la popolazione venezuelana ha perso la sua abituale allegria, è rassegnata, aspetta dei tempi migliori e percepisce che il Paese è assediato. All'assedio, si è poi aggiunta negli ultimi mesi la pandemia e questo ha tolto alla gente la speranza di una società venezuelana migliore. Si tratta di un grande dramma che il Paese sta vivendo perché la popolazione rappresenta un attivo importante che, assieme alle risorse che dispone, è un fattore indispensabile per il suo progresso economico e sociale.
— Quale soluzione Lei propone?
— L’embargo è un cappio al collo dell’economia venezuelana. La corda del cappio non ce l'ha in mano il Governo del Venezuela ma i Presidenti dei Paesi che hanno aderito all’embargo che se la stringono un po’ di più possono anche strangolare il Venezuela. La crisi economica e sociale del Venezuela ha origini esogene e non è originata da fattori interni. Occorre quindi denunciare i danni che l’embargo sta affliggendo all'economia del Paese e alla sua gente e toglierlo. Da quel momento, senza il cappio al collo, il Venezuela può incominciare a respirare e a riprendere a crescere.
— Secondo Lei, con la nuova ammirazione Biden potrebbe sbloccarsi qualcosa?
— Mi auguro che gli Stati Uniti d’America finalmente abbandonino la politica interventista e di forza che negli ultimi anni ha caratterizzato la loro politica estera, in particolare verso i vicini Paesi dell'America Latina. Infatti, nel passato, numerosi Paesi dell'America Latina hanno pagato un gran contributo di vite a questa politica.
Occorre architettare e implementate una nuova visione della politica estera dei Paesi Ricchi verso i Paesi Poveri, fondata sulla cooperazione con il fine di sostenere il loro processo di sviluppo economico e la loro crescita sociale. I Paesi poveri del mondo non rappresentano una minaccia per nessuno ma devono essere considerati dei partner con i quali dialogare a uguali condizioni. Non so se la nuova amministrazione Biden ha in agenda il dossier di una nuova politica estera strutturata su principi di collaborazione ed uguaglianza e non ispirata dal dovere esportare la democrazia americana verso il resto del mondo. Le recenti immagini dell'assalto al Congresso sono di una gravità straordinaria e a mio giudizio hanno anche tolto agli Stati Uniti d'America ogni tipo di legittimità sul suo modello democratico esportabile verso il resto del mondo. In passato, con le amministrazioni Clinton e Obama, avevo una qualche speranza che questo avvenisse ma quando accaduto in numerosi Paesi del mondo negli ultimi anni ha deluso le mie aspettative.Forse, prima che sia troppo tardi, i Paesi ricchi dovrebbero rendersi conto che la crescita del mondo si è spostata al Sud e che senza i mercati di consumo di tre quarti la popolazione del mondo la stagnazione arriverà presto anche a casa loro.
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