Con la primavera, invece, non sembra che stia arrivando la pace, nonostante le sottoscrizioni mensili di accordi su una tregua che non è mai esistita. Al cinguettio degli uccelli continuano a sovrapporsi i boati delle esplosioni dei colpi di artiglieria e dei mortai. I campi a ridosso della linea del fronte, al posto di venir lavorati e coltivati, continuano ad essere inaccessibili per via delle mine.
I punti più caldi della Repubblica Popolare di Donetsk continuano ad essere la periferia di Gorlovka a nord, la periferia di Donetsk nell'arco compreso tra l'aeroporto e la promzona tra Avdeevka e Yasinovataya, ed il settore meridionale a ridosso del mare d'Azov, di fronte a Mariupol.
Nel corso della mia esperienza in Donbass ho girato in lungo e in largo entrambe le repubbliche, mettendo piede in gran parte delle trincee scavate sulla linea del fronte, trascorrendo anche giornate intere sotto i bombardamenti e scambi di raffiche di fucili automatici o colpi di lanciagranate. I bombardamenti sulle posizioni dei miliziani sono routine quotidiana consolidata su buona parte del fronte, mentre quelli sui villaggi, solitamente, si verificano in modo più variabile.
Spesso dipendono dai reparti ucraini schierati di fronte: è risaputo che per gran parte delle volte i bombardamenti sui civili sono opera dei «battaglioni volontari» o «nazionalisti», piuttosto che dei mercenari. L'esercito regolare combatte malvolentieri se non con qualche eccezione dovuta ai comandanti.
Insomma, se sul fronte ucraino vengono schierati i nazionalisti, c'è da aspettarsi che non si faranno troppi scrupoli nel bombardare anche i civili, fino alla rotazione successiva. Esistono anche zone dove, invece, ogni giorno, da qualche mese, i colpi di mortaio, i proiettili di artiglieria o i missili grad dell'esercito ucraino colpiscono le case abitate dai civili, mentre le posizioni dei miliziani che si trovano nel bel mezzo del campo di fronte al villaggio, ad almeno 700 metri dal centro abitato, vengono quasi trascurate da chi apre il fuoco di fronte a loro. Il villaggio in questione è il piccolo insediamento di Kominternovo dove prima della guerra vivevano circa 1000 persone, mentre oggi ne sono rimaste circa 200. Tutte le case portano i segni del conflitto. Molte sono sfondate e ormai inagibili, tutte quelle che invece sono rimaste in piedi hanno riportato danni alle finestre, alle pareti o al tetto di lamiere.
La scuola e l'asilo locali ora sono edifici fantasma. I tetti sono sfondati da colpi di artiglieria e le lavagne, i banchi ed i giocattoli ora si confondono tra le macerie.
L'epicentro della vita sociale ora è il negozio di generi alimentari che per il momento, nonostante sia stato colpito e riparato per quattro volte, continua a lavorare. Appena cominciano i bombardamenti, la proprietaria ed i clienti che in quel momento si trovano nell'edificio corrono verso lo scantinato a cercare un riparo sicuro. Qualcuno prova a coltivare l'orto nel giardino di casa, altri allevano qualche capo di bestiame.
Vista con gli occhi di chi arriva nel villaggio per pochi giorni come me, questa routine è surreale. Ancora più sorprendente è vedere come, nonostante le esplosioni dei colpi di artiglieria che cadono senza una precisa logica e senza preavviso, molti di quelli che non scendono negli scantinati, proseguono nelle proprie attività come se quello che succede intorno non li riguardasse: chi continua a riparare il tubo del gas; chi si arrampica sul palo del lampione per sistemare i cavi della corrente divelti dal bombardamento precedente; chi prosegue in bicicletta verso casa propria.
«Che altro ci rimane da fare? Andarcene per dargliela vinta, in modo che possano avanzare e conquistare la nostra terra? Non se ne parla!», è la risposta più comune che ho sentito dagli abitanti del villaggio, provando a capire le ragioni che inducono oltre duecento persone a continuare a vivere nell'inferno.
L'amarezza più grande, che tante volte diventa un disperato grido di dolore e di rabbia si chiama ”accordo di Minsk”. Sia per i militari, che sono costretti a rimanere sulle proprie posizioni contenendo l'avversario, quando c'è una enorme volontà di liberare anche i territori – come è comune dire da queste parti – sotto temporanea occupazione da parte delle autorità ucraine, sia da parte della popolazione civile che a loro volta vorrebbero vedere la linea del fronte lontano dalle loro case, con i militari ucraini a maggior distanza per non vivere in quel contesto di terrore che quotidianamente affrontano ogni giorno. Quante volte ho assistito a scene di civili che si scagliano contro i miliziani per chiedere delle armi… “Non lo potete fare voi? Dateci un Kalashnikov e ci pensiamo noi a cacciare i banderovtsy!”. Ma la tregua è un ordine e gli ordini vanno eseguiti.
Occorre sopportare e resistere, affidarsi alla diplomazia, agli appelli internazionali od al buon senso. Ma di chi? In tanti avevano sperato in Trump, altri nell'intervento militare russo. In molti questa piccolo lume di speranza ancora rimane. Così come rimangono i bombardamenti. Questi, invece, sono l'unica amara certezza.
L'opinione dell'autore può non coincidere con la posizione della redazione.
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