Un progetto nato una decina di anni fa dall'avventura dei fratelli Castiglioni, fra i più noti antropologi e archeologi italiani, che permette oggi di scoprire passo dopo passo la meravigliosa Adulis, tassello fondamentale per comprendere il mondo antico. Un immenso lavoro reso possibile solamente grazie alla cooperazione italo-eritrea e all'eccellenza di numerose università italiane coinvolte nel progetto.
Il sito archeologico dovrebbe diventare infatti il primo parco archeologico nazionale dell'Africa Subsahariana, evento che rivitalizzerebbe il territorio da un punto di vista turistico ed economico. Inoltre grazie all'archeologia è possibile studiare gli antichi sistemi dei pozzi di rugiada, grazie ai quali si produceva l'acqua, un insegnamento quindi che arriva dal passato e si rivela estremamente utile per il futuro. Sputnik Italia ha raggiunto per un approfondimento l'archeologa Serena Massa, direttrice della missione.
— Tale scoperta è dovuta a due fattori molto importanti. Da un lato vi è la volontà delle autorità eritree di valorizzare il loro patrimonio archeologico, dall'altro la scelta dei fratelli Alfredo e Angelo Castiglioni, invitati dalle autorità, caduta proprio su Adulis. Adesso purtroppo Alfredo non c'è più, è rimasto solo il fratello Angelo Castiglioni. La loro esperienza di ricerche nel deserto orientale lungo il Mar Rosso li ha portatati a scegliere questo sito, che era completamente sepolto dalla sabbia e dal fango. Ecco perché, da un'idea sempre di Alfredo, è nato il parallelismo con Pompei. Come Pompei giace sotto metri di cenere di vulcano, così Adulis giace sotto metri di fango dovuti all'evento catastrofico che ne causò la fine nel VII secolo d.C.
È un progetto che parte da lontano dal 2010, annualmente si succedono campagne di scavo con un'equipe italo-eritrea e con la collaborazione di importanti atenei italiani. Oltre all'Università Cattolica, a cui io afferisco, abbiamo il Politecnico di Milano, l'Università Orientale di Napoli e il Pontificio Istituto di Archeologica Cristiana del Vaticano.
— In che cosa consiste esattamente la missione italiana? Qual è l'importanza del progetto per le università italiane?
— Sottolineerei che non si tratta solamente di una missione italiana, bensì di una missione eritrea e italiana congiunta. Le condizioni sul posto sono particolari e certamente non potremmo raggiungere i risultati finora raggiunti se non avessimo una piena collaborazione delle autorità, degli archeologi e dei topografi eritrei.
— Quanti spazi e reperti sono stati scoperti durante gli scavi? Quanto c'è ancora da scoprire?
— Sulla base delle conoscenze acquisite dal passato, dallo studio e dalle foto satellitari, più o meno abbiamo a che fare con una città di 40 ettari, cioè una grande città. Al momento abbiamo riscoperto l'1% dell'intero sito. Abbiamo scoperto i principali monumenti, perché bisognava dare un segno alle comunità intorno di quale fosse l'importanza del sito. La volontà è di farne poi un parco archeologico, che sarebbe il primo parco archeologico nazionale dell'Africa Subsahariana.
Abbiamo tirato fuori dei grandi monumenti, ma sono solo una parte degli aspetti della città. Dobbiamo ancora scoprire le abitazioni private, le necropoli, dalle quali ci aspettiamo tantissime informazioni, perché contengono gli oggetti di corredo che si trovano solitamente intatti, oltre agli scheletri, i quali permetteranno di studiare anche la popolazione del posto.
— Credo che finalmente, almeno a parole, nel mondo si è capito che dalla cultura possono derivare degli aspetti interessanti dal punto di vista della qualità della vita. Attorno ai siti culturali può ruotare un'attività artigianale, economica, turistica, parliamo di un indotto che rivitalizza i territori in modo qualitativo e da un punto di vista del reddito. Durante l'anno i turisti vanno a vedere i resti e rimangono sorpresi dall'imponenza di questi monumenti. Stiamo parlando di splendide architetture in pietra, altro aspetto raro parlando di queste regioni. Costruire in pietra richiedeva una serie di conoscenza e capacità. Poi sono emerse basiliche paleocristiane che sono straordinarie, con marmi da Bisanzio, con testimonianze ricche di oggetti provenienti dall'Oceano Indiano e dall'altra parte del Mar Rosso.
Parliamo di un nuovo capitolo per i rapporti fra i due Paesi. Vorrei sottolineare che siamo ben accolti e ben voluti, è un rapporto molto amichevole. L'Italia e l'Eritrea sono molte vicine.
— Qual è il valore dell'archeologia anche per il presente? È una materia che parla anche delle persone che vivono oggi?
— Ci dice tutto di noi. L'archeologia studia la cultura materiale, che sta all'origine stessa della cultura. La scrittura, che interviene molto tardi, è un genere limitato alle classi elitarie e alle classi di governo. Il 99% della storia dell'umanità sta nei documenti materiali che gli archeologi riportano alla luce. Gli oggetti parlano come dei libri, il fatto di poter toccare con mano la vita di queste popolazioni di migliaia di anni fa è una grandissima emozione.
Queste isole sono caratterizzate dalla totale assenza di sorgenti d'acqua, eppure sono costellate da centinaia di cisterne. Il che vuol dire che l'acqua veniva prodotta probabilmente con la tecnica dei pozzi di rugiada, era possibile produrre acqua e coltivare. Credo che sia un'indicazione di quanto può essere utile studiare tali tecniche tradizionali per il presente e per il futuro. Parliamo di archeologia pubblica, una materia che serve per migliorare la nostra vita in modo sostenibile.
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