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Long Covid, ecco chi ha più probabilità di sviluppare la sindrome collegata al virus
Long Covid, ecco chi ha più probabilità di sviluppare la sindrome collegata al virus
Due studi, svizzero e americano, hanno individuato diversi fattori che potrebbero far crescere le probabilità di sviluppare il Long Covid. Tra questi asma, diabete e bassi livelli di anticorpi contro il virus.
2022-01-27T18:23+0100
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Malesseri e fastidi che non scompaiono con il tampone negativo, ma possono persistere per mesi. Stanchezza cronica, tosse, difficoltà a concentrarsi, dolore al torace, affanno, tachicardia, nausea, febbricola sono alcuni dei sintomi del Long Covid.In gergo tecnico, si chiama PASC (Post Acute Sequelae of Covid-19), più comunemente sono tutti quegli effetti collaterali del virus che nel 30 per cento dei casi perseguitano chi ha contratto l’infezione anche dopo molti mesi dal superamento della malattia.Secondo le statistiche dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, ad esempio, su un centinaio di pazienti ricoverati per Covid, più della metà, il 60 per cento, ha presentato strascichi dopo due mesi dalle dimissioni. Sono tantissimi, il 40 per cento, anche quelli che hanno mostrato fastidi e malesseri dopo sei mesi.Il fenomeno, insomma, è diffusissimo e si presenta anche in chi sviluppa la malattia in forma lieve. Per questo, gli scienziati di tutto il mondo cercano di capire come prevenirlo.Le prime risposte in questo senso arrivano da due ricerche condotte in Svizzera e negli USA. Gli scienziati americani, in uno studio pubblicato sulla rivista di biologia Cell, hanno individuato almeno quattro elementi, in presenza dei quali sembrano esserci maggiori probabilità di presentare complicanze anche dopo la fase acuta della malattia.La prima ricerca, quella fatta in USA, si basa su un campione di 209 pazienti tra i 18 e gli 89 anni, risultati positivi al tampone tra il 2020 e il 2021, con decorsi della malattia differenti. Gli esami hanno evidenziato come circa un paziente su tre, il 37 per cento, abbia avuto a distanza di tre mesi dall’infezione tre o più sintomi collegati al Long Covid.Tra questi, quasi tutti, il 95 per cento circa, presentavano almeno uno dei quattro fattori di rischio individuati. Nella maggior parte dei casi si trattava della presenza di autoanticorpi, e cioè di anticorpi che non riconoscono le cellule del proprio organismo e le aggrediscono.Sempre dalla tipologia di anticorpi presenti nel sangue di 175 pazienti e di 40 volontari non contagiati, i ricercatori dell’ospedale di Zurigo sono riusciti ad isolare quelli più a rischio di sviluppare il Long Covid nei 12 mesi successivi all’infezione.In particolare, i pazienti affetti dagli strascichi del virus erano quelli con bassi livelli di anticorpi IgM, quelli che aumentano nella prima fase, e IgG, che si sviluppano nella fase successiva e servono a proteggere l’organismo nel tempo.
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Long Covid, ecco chi ha più probabilità di sviluppare la sindrome collegata al virus
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Due studi, un svizzero e uno americano, hanno individuato diversi fattori che potrebbero far crescere le probabilità di sviluppare il Long Covid. Tra questi asma, diabete e bassi livelli di anticorpi contro il virus.
Malesseri e fastidi che non scompaiono con il tampone negativo, ma possono persistere per mesi. Stanchezza cronica, tosse, difficoltà a concentrarsi, dolore al torace, affanno, tachicardia, nausea, febbricola sono alcuni dei sintomi del Long Covid.
In gergo tecnico, si chiama PASC (Post Acute Sequelae of Covid-19), più comunemente sono tutti quegli effetti collaterali del virus che nel 30 per cento dei casi perseguitano chi ha contratto l’infezione anche dopo molti mesi dal superamento della malattia.
Secondo le statistiche dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, ad esempio, su un centinaio di pazienti ricoverati per Covid, più della metà, il 60 per cento, ha presentato strascichi dopo due mesi dalle dimissioni. Sono tantissimi, il 40 per cento, anche quelli che hanno mostrato fastidi e malesseri dopo sei mesi.
Il fenomeno, insomma, è diffusissimo e si presenta anche in chi sviluppa la malattia in forma lieve. Per questo, gli scienziati di tutto il mondo cercano di capire come prevenirlo.
Il segreto, secondo alcuni studi, starebbe nella ricerca dei fattori di rischio, per cercare di intervenire sia a priori, nella fase di trattamento dell’infezione, sia ex post, con terapie mirate, nei pazienti più predisposti a sviluppare il Long Covid.
Le prime risposte in questo senso arrivano da due ricerche condotte in Svizzera e negli USA. Gli scienziati americani, in uno studio pubblicato sulla rivista di biologia Cell, hanno individuato almeno quattro elementi, in presenza dei quali sembrano esserci maggiori probabilità di presentare complicanze anche dopo la fase acuta della malattia.
Il primo, come riferisce il Corriere della Sera, sono gli autoanticorpi, poi c’è il grado di concentrazione nel sangue dell’Rna virale appena viene contratto il Covid, il virus di Epstein-Barr e il diabete di tipo 2. Secondo i colleghi svizzeri, invece, mostrerebbero più probabilità di sviluppare il Long Covid i pazienti con asma e bassa presenza di alcuni anticorpi.
La prima ricerca, quella fatta in USA, si basa su un campione di 209 pazienti tra i 18 e gli 89 anni, risultati positivi al tampone tra il 2020 e il 2021, con decorsi della malattia differenti. Gli esami hanno evidenziato come circa un paziente su tre, il 37 per cento, abbia avuto a distanza di tre mesi dall’infezione tre o più sintomi collegati al Long Covid.
Tra questi, quasi tutti, il 95 per cento circa, presentavano almeno uno dei quattro fattori di rischio individuati. Nella maggior parte dei casi si trattava della presenza di autoanticorpi, e cioè di anticorpi che non riconoscono le cellule del proprio organismo e le aggrediscono.
Sempre dalla tipologia di anticorpi presenti nel sangue di 175 pazienti e di 40 volontari non contagiati, i ricercatori dell’ospedale di Zurigo sono riusciti ad isolare quelli più a rischio di sviluppare il Long Covid nei 12 mesi successivi all’infezione.
In particolare, i pazienti affetti dagli strascichi del virus erano quelli con bassi livelli di anticorpi IgM, quelli che aumentano nella prima fase, e IgG, che si sviluppano nella fase successiva e servono a proteggere l’organismo nel tempo.
Per gli scienziati svizzeri, quindi, chi soffre di asma e presenta bassi livelli di anticorpi contro il virus presenta un rischio maggiore di sviluppare la sindrome collegata al virus.