In caso di morte, impedimento o dimissioni del Presidente, il Vice subentra ed assume la titolarità della Casa Bianca fino al termine del mandato. Il partner del ticket è quindi a sua volta un potenziale Presidente, in grado di succedergli in qualsiasi momento.
Nella storia americana recente, si sono registrati due casi di successione “interna” alla guida degli Stati Uniti. Il primo, nel 1963, ebbe luogo in circostanze altamente drammatiche, in seguito all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas. Il secondo, invece, si verificò nel 1974, al culmine dello scandalo Watergate, quando Richard Nixon cedette la Presidenza a Gerald Ford.
La posizione vice-presidenziale costituisce inoltre un eccellente trampolino di lancio per l’elezione anche quando il mandato del Presidente si esaurisce senza drammi, al suo termine naturale. George H.W. Bush, ad esempio, sfruttò magistralmente il grande consenso di cui aveva goduto Ronald Reagan per sostituirlo nel 1989.
Non sorprende quindi che la decisione di Joe Biden fosse attesa con una certa ansia, data la sua oggettiva importanza. Questa volta, tuttavia, elementi ulteriori hanno contribuito a renderla ancor più rilevante.
Probabilmente non è vero che il candidato democratico alla Casa Bianca soffra di una malattia degenerativa specifica - come pure da più parti si sostiene - anche se rifiuta di sottoporsi ad un test di accertamento delle proprie capacità cognitive.
Ma le amnesie e i frequenti “passaggi a vuoto” che contraddistinguono le sue sortite pubbliche evidenziano nitidamente un dato anagrafico incontrovertibile: Biden compirà 78 anni poco dopo le presidenziali. Nessuno è mai entrato alla Casa Bianca a quell’età.
Questa circostanza peculiare ha caricato di una valenza insolita la selezione del running mate democratico di quest’anno.
Ed è su queste basi che il candidato democratico ed il suo partito hanno individuato Kamala Harris: una personalità di grande spessore nazionale e significativa esperienza politica, che si suppone in grado, all’occorrenza, di assumere il controllo dell’Amministrazione, qualora ciò si rendesse necessario. Fin da subito.
La Harris in effetti non porterà in dote a Biden uno Stato conteso: proviene infatti dalla California, Stato di forti credenziali progressiste, di cui Kamala è uno dei due rappresentanti al Senato dal 2017 e del quale è stata in precedenza anche l’Attorney General, una carica che negli Stati Uniti implica l’esercizio di incisivi poteri nel campo della gestione della giustizia e della repressione del crimine.
La scelta fatta da Biden avrà ovviamente anche ripercussioni nell’immagine complessiva della candidatura democratica alla guida degli Stati Uniti.
In pratica, i democratici stanno riproponendo in chiave moderata un tratto identitario del loro partito, che da tempo si caratterizza come un sindacato di minoranze unite dalla richiesta di azioni affermative in grado di promuoverne le istanze.
Tutto ciò è fatalmente destinato ad accentuare la polarizzazione del prossimo voto presidenziale, già molto alta a causa delle ricadute economico-sociali della pandemia in atto.
È infatti prevedibile che la composizione del ticket Biden-Harris ricompatti la base elettorale sulla quale ha fatto leva il Presidente in carica, che interpreta a sua volta i timori e le difficoltà di una particolare minoranza del paese, rimasta priva di adeguate tutele: quella dei bianchi finiti ai margini del processo produttivo. Persone che vorrebbero accedere almeno alle medesime protezioni finora accordate ad altri gruppi.
Dal punto di vista della politica internazionale, la Harris si situa nel solco della tradizione wilsoniana, esattamente come Biden.
Cosa quindi dovremmo aspettarci in caso di eventuale vittoria del duo Biden-Harris?
Le conseguenze probabili paiono al momento due: il tramonto dell’enfasi posta da Trump sul rispetto della sovranità nazionale come principio fondante dei rapporti tra gli Stati e il rilancio del cosiddetto Smart Power che contraddistinse l’azione di Barack Obama, basato sulla legittimazione e l’attivo sostegno offerti dagli Stati Uniti a tutte le organizzazioni della società civile internazionale attive nella promozione dei regime change.
Maggiore instabilità, quindi, e più penetrante censura delle azioni politicamente “difformi” adottate dai paesi in rotta di collisione con gli interessi degli Stati Uniti, che Trump tende invece ad affrontare in termini contrattuali sulle singole poste oggetto di contesa, esercitando all’occasione pressioni pesanti, senza tuttavia mai porre in discussione il diritto a governare di chi si trova al potere. Il voto americano del prossimo 3 novembre potrebbe avere vaste ripercussioni globali.