E’ il tempo di seguire l’esempio degli antichi Romani che in tempi di emergenza sospendevano la democrazia per sei mesi e delegavano la salvezza della Repubblica ad un unico autorevole condottiero.
Il team medico arrivato dalla Cina l’ha detto appena messo piede in Lombardia. “E’ tempo di chiudere tutto”. Noi nel nome dell’allegro spirito italico siamo ancora convinti che il virus se ne andrà con le sue zampe sconfitto non dall’impossibilità di trasmettersi ad altri umani, ma dalla gioiosa salmodia di canti, inni e battimani intonati dalle finestre delle nostre case. Non abbiamo capito, e sembra stentino a capirlo anche i vertici del paese, che solo un drastica sospensione delle attività come quella imposta a Wuhan e dintorni dalle autorità cinesi potrà salvarci. Ma è il male della democrazia. O meglio di una democrazia stracciona incapace di comprendere che in tempo di guerra non c’è posto per le discussioni, ma soltanto per le decisioni.
Ventidue e passa secoli dopo la nostra Repubblica affronta una catastrofe capace non solo di falcidiare vite umane, ma di mettere in ginocchio il paese per gli anni a venire paralizzandone l’economia e compromettendo la sopravvivenza di aziende e cittadini. I numeri sono già ora quelli di una guerra. Gli oltre tremila morti registrati in un mese di contagio bastano a far accapponare la pelle.
Per capirlo basta il banale confronto con i bilanci di alcuni eventi bellici. In Afghanistan in tutto il 2019 la guerra ai talebani ha causato 3403 morti civili. I cinque mesi dell’assedio a Raqqa, la roccaforte siriana dell’Isis sono costati la vita a 1600 persone. Novemila caduti civili sono il bilancio del brutale e devastante assalto condotto tra l’ottobre 2016 e il luglio 2017 per liberare Mosul dal giogo del Califfato. Se dividiamo il numero dei civili caduti per il numero dei mesi in cui si sono consumate quelle tragedie otterremo una media assai inferiore a quella della mattanza sopportata dal nostro paese in questi disperati ultimi trenta giorni. Eppure nonostante questi dati tragici molti italiani e molte aziende sembrano non capire.
Qualcuno ai vertici di Confindustria pensa follemente che sia più importante continuare a produrre che sopravvivere. Forse dovrebbero spiegargli che i profitti delle aziende serviranno ben a poco se i titolari preposti a guidarle e gli operai chiamati a farle funzionare saranno passati a miglior vita. E questo avverrà ben presto se il contagio si estenderà.
Nessuno a Roma sembra però avere la forza di mettere da parte le consuetudini democratiche, indispensabili in tempi normali a garantire le libertà collettive individuali, e decretare invece delle imposizioni emergenziali vitali in questo momento per salvare il paese. Per questo forse il governo e il parlamento dovrebbero prendere esempio dai nostri predecessori. Siamo in guerra e la nazione rischia di non sopravvivere. La cosa più urgente non è accapigliarsi sulle misure da adottare negoziandone intensità rigore, ma scegliere una personalità autorevole e determinata a cui affidare la guida del paese delegandogli l’imposizione delle scelte e dei sacrifici più duri da attuare con la collaborazione delle principali istituzioni dall’esercito alla sanità, dalle finanze ai servizi sociali. Non è tempo di discutere, ma di agire. E la rinuncia a qualche mese di libertà è il male necessario per poter riassaporare non solo la democrazia, ma la vita nostra e dei nostri cari.