Perché i pensieri nascono nel cervello? Potremmo vivere senza?

© Depositphotos.com / Nicunickie1Un modello del cervello umano
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Alcuni anni fa gli scienziati del MIT hanno scoperto che l’area di Broca nel cervello umano è in realtà costituita da due aree. Una è responsabile del linguaggio, l’altra si attiva quando devono essere risolte problematiche che richiedono importanti sforzi cognitivi.

Questo è in contrasto con l’ipotesi per cui senza linguaggio non vi sarebbe pensiero. Sputnik ha cercato di capire in che modo riescono a pensare i non udenti e se sia possibile considerare i primati esseri pensanti.

Il linguaggio trascrive i ricordi

Alla fine degli anni ’70 Susan Schaller si recò a Los Angeles per lavorare come insegnante di inglese in una scuola per non udenti. Lì incontrò un giovane ragazzo, Ildefonso, che sorprendentemente a 27 anni non conosceva la lingua dei segni.

Ildefonso, non udente dalla nascita, era cresciuto in Messico in una famiglia di udenti. Non aveva mai studiato la lingua dei segni, ma copiava semplicemente le azioni dei parenti e delle persone che lo circondavano. Inoltre, non aveva idea che il mondo attorno a lui fosse pieno di suoni. Pensava che tutte le persone fossero come lui.

Schaller gli insegnò gradualmente la lingua dei segni, a leggere in inglese e far di conto. Dopo alcuni anni decise di scrivere un libro, pubblicato nel 1991 con il titolo A Man Without Words, e incontrò di nuovo Ildefonso. Lui la invitò da alcuni suoi amici, anch’essi non udenti dalla nascita, che, come lui stesso un tempo, non conoscevano la lingua dei segni e avevano acquisito una modalità propria di comunicazione con l’aiuto della mimica.

Due anni dopo Schaller intervistò nuovamente Ildefonso e gli chiese di quei suoi amici non udenti. Ildefonso rispose che non li frequentava più perché faceva fatica a parlare con loro ora che non riusciva più a pensare come loro. E non era più nemmeno in grado di ricordare in che modo comunicasse con loro prima. Studiando la lingua dei segni, Ildefonso aveva anche cominciato a pensare in maniera diversa.

L’età in cui nascono i pensieri

Negli anni ’70 in Nicaragua venne aperta la prima scuola per non udenti. Furono radunati circa 500 bambini provenienti da famiglie comuni. Nessuno conosceva la lingua dei segni: ognuno di loro aveva appreso un suo personale modo per comunicare. Gradualmente gli allievi inventarono una propria lingua dei segni e la generazione successiva la perfezionò. Così nacque la lingua dei segni nicaraguense che è ancor’oggi in uso.

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Come scrive Ann Senghas della Columbia University, che ha studiato le scuole per non udenti in Nicaragua, si tratta di un caso raro che ci aiuta a capire come i bambini non studino semplicemente una lingua, ma la inventano mentre interagiscono con altre persone e con il mondo circostante. Per questo, la lingua è in continua evoluzione. I cambiamenti linguistici principali sono introdotti dai bambini di età inferiore ai 10 anni.

Elizabeth Spelke di Harvard ha dimostrato che a partire dai 6 anni i bambini cominciano a combinare nel proprio cervello diversi concetti per riuscire a risolvere problemi quotidiani. A quell’età il bambino parla già una lingua e la usa per orientarsi nello spazio. Ad esempio, si adegua al fatto che per entrare in casa deve andare a sinistra e seguire la recinzione verde. In questo caso, utilizza subito i due concetti di “sinistra” e “verde”.

In situazioni analoghe le cavie hanno risultati positivi solo nel 50% dei casi, ovvero i risultati sono del tutto casuali. Questi animali si orientano perfettamente nello spazio, sanno quale sia la destra e quale la sinistra. Distinguono i colori. Ma non sono in grado di orientarsi unendo i concetti di direzione e colore. Il loro cervello non presenta una struttura in grado di farlo. E questa struttura è il linguaggio.

Charles Fernyhough della Durham University sostiene una linea piuttosto radicale. Sostiene che il pensiero non sia possibile senza linguaggio. Evidenza di ciò sarebbe il fatto che noi pensiamo sempre per frasi e questo è chiamato discorso interiore. Dunque, secondo lo scienziato, i bambini piccoli che non ancora non sanno parlare non pensano nemmeno.

Perché non servono le parole

D’altra parte, a livello di coscienza molte cose vengono espresse non con parole e suoni, ma con immagini. A testimonianza di questo vi è l’esperienza di chi ha subito un infarto. Così lo ha descritto Bolte Taylor, neurologa statunitense, nel suo libro La scoperta del giardino della mente. Cosa ho imparato dal mio ictus cerebrale.

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Si alzò una mattina dal letto con un dolore all’occhio sinistro. Cercò di fare gli esercizi agli attrezzi, ma le sue braccia non rispondevano. Andò a farsi una doccia e perse l’equilibrio. Poi le si paralizzò il braccio destro e perse completamente l’uso del discorso interiore. Una volta in ospedale aveva dimenticato come si parlasse, la memoria era completamente andata. Non sapeva come si chiamasse né quanti anni avesse. Nel suo cervello regnava il silenzio più assoluto.

Gradualmente Taylor imparò a comunicare. Se le chiedevano chi fosse il presidente del Paese, indicava l’immagine di uomo leader. Dopo soli 8 anni di riabilitazione ricominciò a parlare.

Del fatto che il discorso interiore non sia un presupposto della capacità di pensiero parlano anche i lavori di Evelina Fedorenko del MIT. Fedorenko e i suoi colleghi studiano soggetti con afasia globale, ovvero nei quali sono colpiti i centri cerebrali responsabili del linguaggio e della capacità di parola. Questi soggetti non distinguono le parole, non capiscono cosa si dica, non sono in grado di formare parole e frasi di senso compiuto, fare di calcolo, risolvere problemi logici.

Si ritiene che il linguaggio sia un mezzo di comunicazione non solo tra umani, ma anche tra diverse strutture cognitive cerebrali di uno stesso soggetto (ad esempio tra quelle responsabili dell’orientamento nello spazio o dell’aritmetica).

Un esempio lampante è quello delle tribù Pirahã dell’Amazzonia. Nella loro lingua non vi sono numerali e per la risoluzione di alcuni semplici problemi (come prendere un numero uguale di bastoni e palle) commettono errori.

Il gruppo di Fedorenko grazie alla risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che i pazienti che hanno subito un infarto all’emisfero cerebrale sinistro presentano grandi problemi a livello del linguaggio e della capacità di calcolo. Tuttavia, i pazienti affetti da afasia sono comunque in grado di far di conto. Inoltre, se la cavano con complessi problemi logici di causa-effetto, alcuni continuano a giocare a scacchi, attività che richiede particolare attenzione, grande memoria operativa, capacità di pianificazione e di deduzione.

L’uomo si distingue dagli altri animali per la capacità di parlare una lingua e di capirsi l’un l’altro intuendo cosa passa nella testa dell’altro. I dati di Fedorenko sono convincenti: se un adulto ha sviluppato questa capacità, non necessita di una lingua per esprimere i propri pensieri.

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Un’altra capacità unica dell’uomo è quella di percepire e comporre musica. È una abilità molto simile a quella linguistica: anche in questo caso vi sono suoni, ritmo, intonazione e regole di impiego. Sembra che i pazienti affetti da afasia capiscano la musica. Il compositore sovietico Vissarion Shebalin dopo due infarti all’emisfero sinistro non era più in grado di parlare e di capire le parole, ma continuava a comporre musica a un livello comparabile a quello precedente alla malattia.

Basandosi sui dati delle neuroscienze, gli autori dello studio concludono che lingua e pensiero non vanno di pari passo. I soggetti affetti da infarto o afasia dispongono di una vasta gamma di possibilità cognitive alla base delle quali vi sono i sistemi neuronali più primitivi del linguaggio. Sebbene inizialmente, soprattutto nell’infanzia, queste strutture si sviluppino con l’aiuto del linguaggio.

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