“La prima volta non sapevo cosa stesse succedendo. La seconda volta pensai che si trattasse di prostituzione. Ma la terza volta capii esattamente cosa fosse e rimasi terrorizzato. Volevo solo scappare. Dopo essere tornato in Kosovo dissi al comandante di avere la polmonite. Così fui sollevato dall’incarico”, ricorda un albanese che collaborava con l’UÇK e si occupava del trasporto dei prigionieri dal Kosovo in Albania dopo la fine della guerra in Kosovo.
Che cosa mai poteva terrorizzare un autista dell’Esercito di Liberazione del Kosovo che aveva visto la guerra? (Le sue testimonianze si possono trovare nel rapporto dell’UNMIK sotto lo pseudonimo “testimone #1”).
Va ricordato che questo rapporto del 30 ottobre 2003, redatto da Eamon Smith, capo della Missione ONU (UNMIK) a Pristina e Skopje, e indirizzato a Patrick Lopez-Terres, capo della Direzione Indagini del TPIJ, fu il primo documento e uno dei più informativi nel suo genere ad essere dedicato al presunto traffico di organi umani in Kosovo e Albania tra il 1999 e il 2000.
Un odore dolciastro e nauseabondo
Il rapporto redatto in lingua inglese contiene le dichiarazioni di 8 testimoni anonimi i cui nomi per questioni di sicurezza sono stati sostituiti da numeri in successione e da lettere: fonti #1, 2, 3, 4 e fonti N, P, C, B. Tutti caratterizzati come di etnia albanese. Tuttavia, nella copia disponibile del rapporto sono presenti solo le dichiarazioni di quattro testimoni, mentre quelle degli altri sono citate nella conversazione allegata al rapporto, da cui emerge che le testimonianze rese dalle prime quattro fonti, corrispondono parzialmente a quelle degli ultimi quattro.
“Mi dissero che avrei dovuto portare il camion da Pec (città kosovara) a Prizren (città kosovara al confine con l’Albania. PA (iniziali) mi disse di fare quello che mi era stato detto, di non aprire la bocca e di dimenticarmi di quella missione, così avrei potuto vivere fino alla vecchiaia”, ricorda il “testimone #2”.
Un’altra fonte, le cui testimonianze sono riportate nella relazione, racconta di aver trasportato verso la “Casa gialla” non solo serbi, ma anche prigionieri che parlavano lingue slave dell’Europa orientale e dell’ex URSS. Ricorda che nel camion non c’erano finestrini e la ventilazione non funzionava. Alcune ragazze all’interno del mezzo, infatti, per poco non soffocarono. Inoltre, nel rapporto si dice che a questo testimone venne ordinato di continuare il suo tragitto trasportando parti di corpi e/o organi all’aeroporto di Rinas, nei pressi di Tirana, e di riseppellire (o seppellire per la prima volta) le spoglie di corpi che si trovavano in sacchi neri.
Un’altra testimonianza: “Una fonte ha descritto il viaggio nella casa a sud di Burrelli (ovvero la “Casa gialla”, NdR). Lì il suo supervisore gestiva gli addetti alla sepoltura delle spoglie in sacchi neri. La fonte afferma di aver visto che 10-20 corpi venivano sepolti in un piccolo cimitero a un chilometro da quella casa”.
È singolare che nessuna delle persone indicate nel rapporto dell’UNMIK abbia assistito alle operazioni mediche vere e proprie. Tuttavia, uno di loro ricorda:
“Mi capitò di finire in una stanza della casa a sud di Burreli per prendere dell’acqua. La stanza era pulita, ma c’era un intenso odore di medicinali. Mi fece pensare ad un ospedale. Ma, come potete immaginare, l’odore era dolciastro, ma nauseabondo. Mi faceva schifo, volevo andarmene il prima possibile”.
“C’erano due arabi in uniforme UÇK. La casa era attraversata da un odore nauseabondo e sulle pareti erano state scritte delle sure del Corano”, conferma un’altra fonte.
Il business non è guerra: nel vortice finirono non solo i serbi
Le dichiarazioni dei testimoni indicano che i comandanti dell’UÇK consideravano i fatti accaduti tra il 1999 e il 2000 come un business redditizio:
“C. dice che alla prima coppia di serbi furono estratti solo due reni e dopodiché vennero uccisi. L’idea era di penetrare il mercato. Poi, iniziarono ad agire in maniera migliore (dal punto di vista del guadagno, NdR) e arrivavano anche a 45.000 (probabilmente dollari, NdR) per persona”.
“La guerra e il caos subito dopo era la situazione migliore per gestire il business”, afferma una delle fonti, ripetendo le parole di un proprio superiore dell’ UÇK.
Al rapporto UNMIK è allegato un elenco di dieci prigionieri mandati in Albania. In base ai cognomi tutti e 10 sarebbero serbi. Nelle testimonianze si menzionano molte più vittime di questi rapimenti, trasportate in Albania dai testimoni: venivano trasportati in grandi gruppi, ognuno composto da decine di persone. Tuttavia, le fonti non conoscevano i loro nomi.
“C’erano 30 prigionieri fra cui una donna e 10 combattenti dell’UÇK. Ci aspettavano. Era chiaro che avessero camminato a lungo. Erano sporchi e pieni di polvere, alcuni avevano dei lividi”, così “testimone 2” ricorda il primo gruppo da lui trasportato dal Kosovo in Albania.
L’autore del rapporto UNMIK, Eamon Smith, conclude che la maggior parte dei prigionieri erano kosovari serbi rapiti tra il giugno e il settembre 1999.
Tuttavia, nelle dichiarazioni delle fonti figurano anche rapiti albanesi. Inoltre, uno dei testimoni, il #6, fu anch’egli prigioniero dell’UÇK, venne fermato perché sospettato di collaborare con l’esercito jugoslavo. Nel documento si legge che suo fratello fu ucciso perché anch’egli sospettato.
“Ricordo che ero molto turbato perché là c’erano anche ragazze albanesi. Ed erano davvero giovani”, conferma “testimone #1”.
Michael Montgomery, collaboratore del Center for Investigative Reporting e autore del documentario “The Kosovan disappeared”, in un’intervista a Balkan insight nel 2009 ha confermato che le sue indagini, servite da base al rapporto di Eamon Smith e Patrick Lopez-Tarres, erano cominciate con la ricerca delle spoglie degli albanesi scomparsi senza lasciare traccia. Di Montgomery si parla anche più avanti.
Per il momento sottolineiamo che nel rapporto UNMIK figura questa dichiarazione di un testimone:
“Le ragazze albanesi del nord venivano rapite e usate a questo fine (gli organi, NdR) invece di essere mandate in Italia a prostituirsi come molte altre”.
I giovani “carne” pregiata
Alcuni testimoni le cui dichiarazioni sono disponibili nel rapporto UNMIK sono concordi sul fatto che i prigionieri deportati dal Kosovo all’Albania all’apparenza erano giovani ed in salute.
“Non so chi fossero quei serbi. Avevano tutti più o meno 30 anni. Dal loro aspetto e dal loro abbigliamento pareva che fossero gente di campagna”.
“Spinsero 4 uomini serbi in un minivan. Erano giovani e in buona forma”.
Tre testimoni prestano attenzione agli insoliti ordini dei comandanti di trattare bene i prigionieri, di non picchiarli, non provocare traumi, dare loro da mangiare e da bere:
“Pensavo che intendessero ucciderli. E invece ci ordinarono di non picchiarli, di non provocare loro traumi, ma di dar loro acqua e cibo. Questo successe tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1999”, ricorda “testimone #1”.
“Portai loro la colazione. Ero sorpreso nel vedere che la colazione dei prigionieri fosse così abbondante”, afferma un altro testimone.
Tra il 1999 e il 2000 il Kosovo non aveva ancora dichiarato l’indipendenza ed era una provincia autonoma della Serbia sia per Belgrado sia per la comunità internazionale. Tra il Kosovo e l’Albania era in vigore un confine di stato a tutti gli effetti.
Molti combattenti che deportavano serbi kosovari giovani e in salute in Albania confermano che in corrispondenza della frontiera venivano fatti passare senza problemi nonostante il traffico limitato e i continui controlli.
“Andavamo a Kukes, attraversavamo il confine a Morine. Il traffico era molto intenso. Nessuno però ci fermava al confine”, ricorda “testimone #2”.
Uno dei testimoni sostiene che all’aeroporto Rinas, da dove materialmente gli organi venivano esportati dal Paese, non c’era nessun problema:
“S. mi disse che all’aeroporto non c’erano stati problemi. Ai dipendenti erano stati dati molti soldi perché chiudessero un occhio su tutta la faccenda”.
Il giornalista Michael Montgomery nella sua intervista si dice perplesso riguardo al motivo per cui la vendetta postbellica nei confronti dei serbi del Kosovo, avesse assunto quelle forme:
“Noi fummo scossi dal fatto che, se questi atti furono semplicemente omicidi per vendetta, che motivo c’era di preoccuparsi di trasportare i cadaveri in Albania attraversando le montagne? Perché non ucciderle direttamente in Kosovo come era stato fatto con altri? Ancora più strane furono le storie secondo cui a chi trasportava i rapiti venne ordinato di non fare del male ai prigionieri. Questo avrebbe senso solo nel caso in cui fossero stati sequestrati per chiedere un riscatto. Ma non sono a conoscenza di molti casi di riscatto, tantomeno di casi che videro implicati dei serbi”.
“Non vogliamo essere fatti a pezzi”
Due testimoni parlano di visite e analisi mediche che vennero effettuate sui prigionieri in loco.
“Durante la prima deportazione a Burreli capii che li visitavano e facevano loro le analisi del sangue. Anche prima di allora avevo sentito che facevano le analisi del sangue ai prigionieri. E questo mi sorprese. Perché lo facevano?”, ricorda “testimone #1”.
Tre testimoni confermano di aver visto nei luoghi di deportazione dei prigionieri alcuni medici albanesi e un dottore di nazionalità sconosciuta dalla carnagione olivastra. Altri testimoni lo identificano come arabo o egiziano.
“Arrivammo fino alla fine della strada dove si trovava la Casa gialla. Di fronte alla casa c’erano alcune persone e due dottori (o almeno così ce li presentarono). Uno era arabo e il secondo albanese. Il secondo lo chiamavano Dr. Admir”.
Tre testimoni parlano dei documenti medici consegnati ai “corrier” prima del trasporto coatto:
“Il giorno seguente li portammo via dalla Casa gialla, a Fushe-Kruje. Prima di partire, il dottore diede al soldato una borsa nera. Penso che dentro ci fossero delle lettere. In tutti i viaggi successivi ci diedero una borsa o una scatola con dei documenti che dovevano essere tramessi al dottore quando consegnavamo i prigionieri”, ricorda “testimone #1”.
“I serbi avevano paura. A una delle fermate un uomo ci chiese di ucciderlo sul posto. “Non vogliamo essere fatti a pezzi”, disse. Nel tardo pomeriggio li portammo nella Casa gialla”, ricorda “testimone #1” nel rapporto UNMIK.
Secondo le testimonianze di S. questi serbi avevano tutte le ragioni per aver paura:
“S. mi racconto che sulle montagne tenevano prigionieri molti serbi per “migliorare le analisi del sangue”. Davano loro da mangiare e li facevano lavorare molto nelle fattorie e nell’industria del legno. Quando i membri dell’UÇK ricevevano una richiesta di organi, portavano i serbi a Burreli dove aspettavano di essere operati. Il giorno prima dell’operazione venivano portati a Fushe-Krija, nel ranch lì vicino. Dopo che veniva preso loro tutto quello che serviva, venivano seppelliti nello stesso luogo. Dunque, le sepolture furono fatte su un terreno privato”.
UNMIK nel suo rapporto del 2003 giunge a questa conclusione:
“I prigionieri deportati nell’Albania centrale furono poi nuovamente trasportati nella Casa gialla di Burreli che fu trasformata in una clinica improvvisata. Qui il personale impiegava strumentazioni mediche per estrarre organi interni ai prigionieri che poi morivano. In seguito, i loro corpi venivano seppelliti nelle vicinanze”.
Come venivano effettuate le operazioni per l’asportazione degli organi? Quali prove materiali sono state scoperte?
Leggetelo nella continuazione di quest’articolo e nella prima parte.