Al momento in cui questo commento veniva scritto, tutto ciò che si sapeva davvero con certezza era che due navi mercantili dirette verso l’Estremo Oriente avevano subìto degli attacchi, prendendo fuoco e determinando il loro abbandono da parte dei rispettivi equipaggi.
Voci contraddittorie non ancora spentesi del tutto hanno attribuito l’offesa a siluri, testate magnetiche esplosive e, persino, ordigni provenienti dal cielo. Le immagini giunte finora, quantunque non del tutto esenti dal rischio di falsificazioni e ritocchi, avrebbero permesso di escludere l’ipotesi delle torpedini, rinforzando invece quella relativa alle mignatte, che sarebbero state tra l’altro piazzate sulle paratie delle navi al di sopra della loro linea di galleggiamento. Chi ha attaccato, pertanto, intendeva lanciare un messaggio politico e probabilmente incoraggiare anche qualche incremento a breve termine dei prezzi petroliferi, ma non provocare una strage.
Ad una più attenta lettura del contesto, tuttavia, la complessità della crisi appare più evidente. Gli incidenti avvenuti nelle acque situate tra le coste dell’Iran e quelle dell’Oman sono infatti occorsi mentre nella Repubblica Islamica il premier nipponico Shinzo Abe incontrava la Suprema Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Khameney, ed il presidente riformista, Hassan Rouhani.
All’abbattimento della Repubblica Islamica puntano però alcuni settori dell’Amministrazione che Trump dirige – in particolare quelli che fanno capo al Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton - una parte importante della cosiddetta dirigenza araba moderata (appellativo che non sembra più applicarsi al Qatar) oltre naturalmente al governo israeliano uscente.
Il partito trasversale della trattativa tra Iran e Stati Uniti, di per sé già sulla difensiva, ha quindi molti nemici. A quelli appena menzionati, vanno anche aggiunti gli elementi che nel campo iraniano hanno molto da perdere da un’eventuale normalizzazione delle relazioni tra Teheran e Washington.
Si è affacciata però anche una tesi differente e più sofisticata, secondo la quale, invece, il Governo iraniano non sarebbe stato estraneo alla decisione di attaccare i due mercantili. Coloro che l’abbracciano, in effetti, ritengono che in Iran si sia inteso iniziare a reagire alla politica della massima pressione applicata dagli Stati Uniti nei confronti di Teheran, imponendo dei costi anche a chi partecipa alla sua attuazione.
Dal momento che ne deriveranno tensioni sui prezzi dell’energia e l’aumento dei noli richiesti dagli armatori, alle prese con un rischio militare maggiore – questo sarebbe il calcolo – questi attacchi circoscritti dovrebbero accrescere l’interesse a rivedere questo stato di cose da parte di molti paesi coinvolti nell’applicazione delle sanzioni alla Repubblica Islamica.
Basterebbe, tutto questo, a scatenare il conflitto di maggiori proporzioni tra l’Iran, gli Stati Uniti ed Israele che tanti temono? Allo stato, si può escluderlo. La reiterazione delle offese portate al traffico mercantile marittimo negli stretti di Hormuz non dovrebbe portare alla guerra, ma piuttosto, proprio come quaranta anni fa, ad un rischieramento di forze navali straniere nelle acque del Golfo. Spetterebbe al naviglio militare occidentale e alle flotte dei paesi che importano il greggio dal Kuwait e dagli altri Emirati presenti nell’area – quelle di Cina e Giappone incluse - scortare i rispettivi mercantili. Negli anni ottanta, si mosse anche la Marina Italiana, che inviò a questo scopo una propria squadra navale in quelle acque turbolente. A Palazzo Chigi, sedeva allora Giovanni Goria, un mite democristiano prematuramente scomparso.
In conclusione, è lecito preoccuparsi dell’ulteriore deterioramento del clima politico-strategico nel Medio Oriente allargato, ma è forse ancora presto per cedere al panico. Ci sono ampi margini per gestire anche questa crisi.
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