Quel tipo di democrazia è detto liberale perché oltre a una maggioranza cui spetta il diritto/dovere di governare, esistono con pari dignità anche gli spazi per le minoranze, che mantengono il diritto non solo a continuare a esistere, ma anche a non essere emarginate.
Altre "democrazie liberali", come ad esempio la Francia e gli Stati Uniti, pur mantenendo la stessa ripartizione, hanno preferito dare maggiori poteri all'Esecutivo, personificato dal Presidente eletto a suffragio popolare. In questi casi, si è pensato bene di creare dei "contropoteri", cercando di bilanciare così possibili eccessi decisionali nelle mani di una sola persona. Anche questo sistema non è però esente da controindicazioni e lo si può costatare proprio in questi giorni con il fenomeno dello shut-down che per più di un mese ha tenuto bloccati tutti i servizi federali americani a causa di un dissidio non composto tra il Parlamento e il Presidente.
E' evidente che anche in politica vale il concetto della coperta: se la tiri da una parte, lasci scoperta l'altra. Scegliere tra maggiore libertà individuale o efficienza nelle decisioni e nella loro applicazione, tempi, rappresentatività, potere rispettivo di maggioranza e di minoranza ecc. non è mai una scelta che possa garantire essere la migliore in assoluto e, ovunque si vada, esistono dei pro e dei contro.
In ogni democrazia, comunque, spetta al singolo cittadino decidere quale sistema scegliere e, solitamente lo fa nel momento in cui va a votare.
Nei suoi principi fondamentali recita (tra l'altro): "La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".
Più avanti (dall'articolo 55 al 69) si precisa come sarà eletto il Parlamento cui i successivi articoli 70 e 71 affidano la funzione di fare le leggi. I referendum sono ammessi soltanto come "abrogativi" e non possono riguardare temi fiscali o di politica estera.
Naturalmente, com'è ovvio, anche le Costituzioni si possono cambiare e la nostra ha subito più volte delle correzioni. Per farlo si richiedono, però, quattro voti d'approvazione (due per ogni Camera e distanziati tra loro nel tempo) e, in caso di maggioranze non qualificate e a certe condizioni, le modifiche sono sottoposte a referendum.
Pochi giorni orsono Montecitorio ha iniziato l'esame di una proposta di legge di modifica costituzionale presentata dai deputati del Movimento Cinque Stelle che, se approvata, cambierà il nostro sistema politico in modo radicale. Si tratta, in effetti, di dare forma a quella che gli esponenti di quel partito hanno voluto chiamare "democrazia diretta".
I punti principali di questa proposta sono i seguenti:
• riduzione del numero dei Parlamentari e delle indennità loro percepite come compenso del loro lavoro legislativo
• eliminazione del vincolo di mandato
• subordinazione della potestà legislativa dei Parlamentari a proposte che arrivino direttamente dai cittadini
Per quanto riguarda il numero non si tratta di una novità, poiché ben due possibili modifiche in questo senso erano già contenute nelle due modifiche costituzionali bocciate da rispettivi referendum. In merito ai compensi che spetterebbero ai legislatori, si tratta certamente di una valutazione puramente soggettiva il credere che quanto ora percepito rappresenti il giusto, sia troppo o troppo poco. Non va dimenticato però che è falso sostenere che gli eletti italiani siano i più pagati d'Europa.
Anche sull'eliminazione del vincolo di mandato ci sarebbe molto da discutere. A questo proposito occorre sapere che proprio il Partito dei proponenti non sembra dare grandi garanzie sulla democraticità (e la libertà di pensiero dei suoi deputati) dei procedimenti interni al partito. Di là dall'oscurità del rapporto tra la società dei Casaleggio e gli esponenti del Partito, succede anche che, contrariamente ai vigenti regolamenti parlamentari, nemmeno il capogruppo viene eletto da un'assemblea dei suoi colleghi ma è invece nominato dal leader, che può deciderne la sostituzione senza renderne conto ad alcuno. Sembra di essere un po' lontani dal mantra dell'"uno vale uno".
Dove le perplessità sono più forti, è però sulla proposta di obbligare il Parlamento a discutere (e approvare) una qualunque legge se presentata da 500.000 elettori. Qualora i legislatori ufficiali (non è, infatti, prevista la soppressione delle Camere) non la approvassero entro diciotto mesi, essa sarà sottoposta a referendum, anche se la materia coinvolta fosse di carattere fiscale o di spesa pubblica. Se, invece, fosse approvata con qualche variazione, allora si dovranno discutere i cambiamenti con il comitato promotore di quella proposta. In questo caso, se i promotori (quanti? Uno, dieci, mille?) non fossero d'accordo, sarà ancora un referendum popolare a decidere quale delle due ipotesi approvare. Si tratta dunque di subordinare la democrazia rappresentativa a quella detta "diretta".
Apparentemente nulla di male, anzi! A un primo sguardo sembrerebbe che quella "diretta" sia la sola vera democrazia possibile poiché coinvolgerebbe tutti i cittadini e non solo i suoi "rappresentanti". Un inconveniente (tra gli altri) è però la richiesta che quei referendum non debbano avere un minimo di partecipanti al voto: basterebbe, infatti, che si presentasse il venticinque percento degli aventi diritto per giudicare la consultazione valida.
In altre parole, una piccola minoranza, nemmeno identificabile, avrebbe nelle decisioni la meglio sui rappresentanti legittimamente eletti dalla maggioranza dei cittadini.
Com'è possibile pensare di affidare decisioni magari molto tecniche o complicate agli umori passeggeri di un'opinione pubblica impreparata? Comunque sarà deciso, ai sostenitori della cosiddetta "democrazia diretta" vorrei ricordare che non c'è niente di nuovo sotto il sole.
Che cosa credete che facesse Ponzio Pilato, se non appellarsi direttamente alla piazza, quando chiese di scegliere tra Barabba e Gesù? Sappiamo come andò a finire.
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