L'oro del Venezuela si trova sottoterra, molto in profondità: bisogna scendere almeno di 150 metri per trovare l'extra-pesado, il petrolio extrapesante le cui riserve enormi potrebbero essere alla base dell'interesse americano a detronizzare il presidente Maduro.
Lungo il fiume Orinoco, in una zona remota del Paese, sorge un'area bituminosa che potrebbe arrivare a fornire 1300 miliardi di barili al giorno: una quantità mostruosa che fa venire l'acquolina in bocca alle società estrattrici di mezzo mondo.
La PDVSA (Petroleos de Venezuela) è la società statale che deve gestire una così ingente fortuna, pur avendo fin dal 2003 enormi problemi di manodopera e di fuga di cervelli. Per finanziare la ricerca, al fine di sfruttare le immense risorse potenziali dell'Orinoco, il governo di Caracas ha dovuto cedere a Pechino e a Mosca crescenti quantità di petrolio in cambio di fondi.
Bisogna quindi pensare al Venezuela non solo — come stanno facendo i giornali — a un terreno di scontro "ideale" tra democrazia e dittatura, ma come l'ennesima puntata di un gioco geopolitico nel quale gli Stati Uniti prediligono l'esportazione della democrazia esclusivamente nei Paesi dalle risorse minerarie importanti (si vedano i noti precedenti di Iraq e Libia). La democrazia, insomma, sembra essere una variabile dipendente dalla presenza di petrolio o altre ricchezze potenziali da sfruttare.
Se fossero la Russia e la Cina a mettere le mani sul tesoro dell'Orinoco, gli americani perderebbero un'opportunità di business come poche capitano nel corso della Storia.
Per questo, c'è da scommettere che la pressione ad "esportare la democrazia" a Caracas divenga via via più accentuata con il passare dei mesi e degli anni.
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