Lo scontro Clinton/Trump sta ravvivando gli animi di chi – dall’alto del suo spirito “democratico” (nel senso più anti-etimologico del termine) legge la contesa tra i due candidati come l’ennesima riproposizione dello scontro bene/male a cui i nostri media ci hanno ormai abituato. Da una parta una donna (come se questo fosse un merito a priori) sorridente e “ragionevole” contro il rivale repubblicano, “arrogante e cattivo”. Chi scrive non nutre alcuna simpatia per la figura di Donald Trump ma sul “falco” Hillary Clinton ci sono pochi dubbi: possiamo tranquillamente sostenere che è il candidato più aggressivo in politica estera e più pericoloso per noi europei (a meno che non si voglia identificare la geopolitica europea con la pulsioni russofobe provenienti dai paesi della cosiddetta “nuova Nato”).
Di Hillary Clinton basta ricordare la patetica parafrasi cesariana in occasione dell’uccisione di Gheddafi, il suo ruolo attivo nella guerra contro la Libia e nella destabilizzazione della Siria, il suo legame (e della Clinton Foundation) con le monarchie del Golfo, la sua propensione a sfruttare gli estremisti islamici per gli obiettivi geostrategici americani (Siria docet). Ma, a voler guardare indietro, anche la politica balcanica di Bill Clinton non era ostile agli estremisti islamici (quando erano utili) come l’Uck kosovaro.
Regina dei regime change, sostenitrice di una no-fly zone americana in Siria, di una politica muscolare contro la Russia e di un ruolo più attivo della Nato in Europa. “Pares cum paribus facillime congregantur” (ognuno frequenta con grande facilità i suoi simili), scriveva Cicerone. Sarà forse un caso che figure di punta dei neo-conservatori come Robert Kagan sostengano apertamente Hillary Clinton? Non proprio. Anche secondo Jill Stein, candidata alle elezioni presidenziali del Gpus (partito verde), la politica estera di Hillary Clinton è potenzialmente molto pericolosa: la volontà di imporre una no-fly zone in Siria potrebbe portare infatti ad una pericolosa escalation di guerra aerea con la Russia. Agli occhi della Clinton, Donald Trump è un “agente di Putin” soltanto perché si dice favorevole a trattare (anche duramente) con la Federazione Russa. Trump si fa portavoce di un approccio neo-isolazionista ed è più realista sull’Europa (per questo viene "apprezzato” dal Cremlino); è inoltre disposto a trattare con la Russia su Ucraina e Siria. Trump è però molto critico verso l’accordo raggiunto con l’Iran (per tenersi stretto il già titubante e scricchiolante establishment repubblicano), è un forte sostenitore di Israele (come la Clinton) e propugnatore di un maggiore ruolo statunitense nel contenimento anticinese nella regione Asia-Pacifico (accomunato anche in questo alla Clinton).
Non saranno certamente Trump o Hillary a modificare strutturalmente l’imperialismo statunitense o la proiezione americana nel mondo, ma è doveroso farsi un’idea di entrambi a partire dai programmi, dal “curriculum” personale e dalle prospettive di politica estera sopra commentati. Doveroso soprattutto per noi euro-mediterranei, che scontiamo – complice la nostra paradossale compiacenza – responsabilità altrui sia nelle ostilità europee verso la Russia che nel caos mediorientale e nordafricano.
Più che “tifare” per l’uno o per l’altro candidato – ginnastica mentale dai dubbi riscontri pratici – dovremmo chiederci quale sia il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e dove vogliamo collocarci noi europei. Perché i tempi che verranno non saranno sicuramente piacevoli.