Clinton vs Trump: quali prospettive in politica estera?

© REUTERS / Rick Wilking Un momento del faccia a faccia tra Hillary Clinton e Donald Trump
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I media occidentali presentano spesso lo scontro Clinton/Trump in chiave manichea e l'opinione pubblica è spesso portata a vedere in Hillary Clinton la figura del candidato " più ragionevole". Le vicende siriane, libiche e le politiche aggressive antirusse ci raccontano però una storia diversa. Dove ci collochiamo "noi" europei?

Lo scontro Clinton/Trump sta ravvivando gli animi di chi – dall’alto del suo spirito “democratico” (nel senso più anti-etimologico del termine) legge la contesa tra i due candidati come l’ennesima riproposizione dello scontro bene/male a cui i nostri media ci hanno ormai abituato. Da una parta una donna (come se questo fosse un merito a priori) sorridente e “ragionevole” contro il rivale repubblicano, “arrogante e cattivo”. Chi scrive non nutre alcuna simpatia per la figura di Donald Trump ma sul “falco” Hillary Clinton ci sono pochi dubbi: possiamo tranquillamente sostenere che è il candidato più aggressivo in politica estera e più pericoloso per noi europei (a meno che non si voglia identificare la geopolitica europea con la pulsioni russofobe provenienti dai paesi della cosiddetta “nuova Nato”).

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Stessa storia – in grande – della Tymoshenko: entrambe ladies esaltate dalla stampa “democratica” con la benedizione dei guru falso-progressisti italiani. A volere scavare a fondo si capisce però che il sistema politico americano è la manifestazione superficiale di sottesi rapporti lobbistici, economici, politici, di bilanciamenti costituzionali e tra istituzioni che rendono la classe dirigente vincolata ma anche “legata” sotto molti aspetti (per non parlare della gestione familiare delle candidature presidenziali). Senza commettere forzature politologiche è possibile affermare che il sistema politico statunitense è nei fatti prettamente oligarchico.

Di Hillary Clinton basta ricordare la patetica parafrasi cesariana in occasione dell’uccisione di Gheddafi, il suo ruolo attivo nella guerra contro la Libia e nella destabilizzazione della Siria, il suo legame (e della Clinton Foundation) con le monarchie del Golfo, la sua propensione a sfruttare gli estremisti islamici per gli obiettivi geostrategici americani (Siria docet). Ma, a voler guardare indietro, anche la politica balcanica di Bill Clinton non era ostile agli estremisti islamici (quando erano utili) come l’Uck kosovaro.

Regina dei regime change, sostenitrice di una no-fly zone americana in Siria, di una politica muscolare contro la Russia e di un ruolo più attivo della Nato in Europa. “Pares cum paribus facillime congregantur”  (ognuno frequenta con grande facilità i suoi simili), scriveva Cicerone. Sarà forse un caso che figure di punta dei neo-conservatori come Robert Kagan sostengano  apertamente Hillary Clinton? Non proprio. Anche secondo Jill Stein, candidata alle elezioni presidenziali del Gpus (partito verde),  la politica estera di Hillary Clinton è potenzialmente molto pericolosa: la volontà di imporre una no-fly zone in Siria potrebbe portare infatti ad una pericolosa escalation di guerra aerea con la Russia. Agli occhi della Clinton, Donald Trump è un “agente di Putin” soltanto perché si dice favorevole a trattare (anche duramente) con la Federazione Russa. Trump si fa portavoce di un approccio neo-isolazionista ed è più realista sull’Europa (per questo viene "apprezzato” dal Cremlino); è inoltre disposto a trattare con la Russia su Ucraina e Siria. Trump è però molto critico verso l’accordo raggiunto con l’Iran (per tenersi stretto il già titubante e scricchiolante establishment repubblicano), è un forte sostenitore di Israele (come la Clinton) e propugnatore di un maggiore ruolo statunitense nel contenimento anticinese nella regione Asia-Pacifico (accomunato anche in questo alla Clinton).

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E’ bene ricordare che anche Bush junior era mosso da uno spirito isolazionista e sappiamo com’è andata a finire dopo l’11 settembre. Il mondo però è cambiato rispetto ai primi anni duemila e una simile hybris unipolare non può essere più sul tavolo di nessuno dei due candidati. Tra le discussioni, ambizioni o promesse elettorali e le effettive politiche portate avanti una volta alla Casa Bianca, c’è in mezzo il mare della complessità del sistema politico-economico americano e delle pressioni politiche e geopolitiche a cui il Presidente è sottoposto. Questo assunto vale ovviamente per entrambi i candidati alla leadership dell’unica super-potenza mondiale che si trova in una progressiva (ma dalla durata ed esito imprevedibili) crisi egemonica.

Non saranno certamente Trump o Hillary a modificare strutturalmente l’imperialismo statunitense o la proiezione americana nel mondo, ma è doveroso farsi un’idea di entrambi  a partire dai programmi, dal “curriculum” personale e dalle prospettive di politica estera sopra commentati. Doveroso soprattutto per noi euro-mediterranei, che scontiamo – complice la nostra paradossale compiacenza –  responsabilità altrui sia nelle ostilità europee verso la Russia che nel caos mediorientale e nordafricano.

Più che “tifare” per l’uno o per l’altro candidato – ginnastica mentale dai dubbi riscontri pratici – dovremmo chiederci quale sia il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e dove vogliamo collocarci noi europei. Perché i tempi che verranno non saranno sicuramente piacevoli.

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